Degli anniversari e di altri demoni

Nove anni fa, più o meno in questi giorni, scrivevo questo post.

Avevano appena chiuso Friendfeed (se non sapete cosa fosse mi dispiace moltissimo per voi perché vuol dire che non lo avete vissuto e a mio parere avete perso qualcosa di bello che non è facilmente spiegabile a chi non c’era) e stava cominciando la diaspora di noi friendfeeders, o fifini, che ormai siamo diventati fufini (fufini perché fifi, che era l’acronimo nato dal FF logo della piattaforma, è stato trasformato in fufi, il fu funge da passato remoto, e in effetti quelli che eravamo allora sono diventati tutti fu, e non sempre è un male. A volte sì, ma quella roba è triste e ne parleremo altrove, se non ne abbiamo già parlato).

Ci aggiravamo tristi per la rete cercando un posto dove migrare, sembra un po’ una cosa biblica, tipo la fuga d’Egitto del popolo di Israele alla ricerca di una terra promessa. Vi svelo subito il finale: la terra promessa non esisteva. Quindi a un certo punto ci siamo fermati dove stavamo meno stretti.

Siamo andati avanti così, per qualche tempo, e intanto passavano gli anni, e in questi anni qualcuno interagiva ancora on line, qualcuno si incontrava, qualcuno non solo si incontrava ma cementava amicizie, facevamo ogni anno un raduno di amici immaginari (perché ci chiamiamo così, tra persone che si sono conosciute lì, io almeno li chiamo ancora gli amici immaginari, è meno complicato che spiegare dove e come ho conosciuto la maggior parte delle persone con cui ho discusso, riso, pianto, litigato in 13 anni della mia esistenza).

E poi a me è successo qualcosa.

Mentre il tempo passava e si trascorreva il tempo a celebrare un luogo on line che non esisteva più, io andavo avanti, e le mie amicizie di vecchia data si confondevano con quelle incontrate on line, si fondevano con quelle nuove, e non aveva più importanza il dove ci si era conosciuti, il perché, e il come soprattutto.

In questi 9 anni di assenza del socialino ho conosciuto molte delle persone dietro ai nick, e ho scoperto mondi che non avrei mai potuto conoscere altrimenti.

Ho trovato lavori. Ho fatto la babysitter ai bambini di quegli amici immaginari. Sono stata a un funerale e altri ne ho mancati, sempre di quegli amici.

Ho scoperto il femminismo. Ho pubblicato un romanzo grazie anche a quegli amici.

E soprattutto mi sono accorta che nonostante friendfeed non esista più come luogo è rimasto uno spirito della sua comunità, che si presenta nei momenti peggiori.

Da quelle persone conosciute on line, che a volte ho frequentato e a volte no, sono usciti gesti che somigliano alla solidarietà tipica delle comunità di un tempo.

In questi giorni è successo di nuovo, e la cosa straordinaria è che appena si chiede aiuto l’aiuto arriva, come se non fossero mai passati 9 anni, come se il fatto che non esista più il luogo fisico dove ci incontravamo a tutte le ore del giorno e per qualcuno della notte (non per me che vado a dormire con le galline) in fondo non sia rilevante, perché lo spirito del friendfeed non è mai stato spento.

Quindi per la prima volta in nove anni io non mi sono commossa leggendo i post nostalgici di chi faceva parte di quella comunità.

So perfettamente che friendfeed non è morto, ma è solo cresciuto, perché friendfeed era fatto di persone che si sono incontrate in un certo momento della loro vita, si sono piaciute e per qualche strana ragione continuano a piacersi ancora adesso, anche se non hanno più una casa e non si leggono più tutti i giorni.

Sapete quando i bruchi diventano farfalle? Ecco.

(ed ecco perché ho smesso di commuovermi intorno al 9 aprile, ma sono contenta di essere diventata grande anche grazie a un sacco di quelle persone da cui ho imparato che il modo migliore di crescere è sempre avere intorno persone migliori di te, per cultura, per indole e per qualsiasi cosa che mi venga in mente. Altrimenti resti per strada, e nessuno dovrebbe restare per strada)

Michela Murgia un po’ afosa, non ventilata

Quando a maggio il mondo, di cui faccio parte incidentalmente anche io, ha saputo che a Michela Murgia mancavano pochi mesi a causa di un carcinoma ai reni al quarto stadio, ho deliberatamente evitato l’argomento. Per essere precisi ho provato a farlo, ma in una chat di amiche lettrici mi è arrivata una domanda sulle posizioni di Michela circa Hamas, e ho deciso che non avrei più discusso le posizioni di Michela su nessuna questione a meno di non essere a tu per tu con il mio interlocutore.

Non ero in una chat di persone ostili, anzi. Ma ho capito di non essere in grado di affrontare nessun argomento che toccasse le opinioni di Michela su nessun argomento su cui si era ampiamente espressa in passato, almeno non in quel momento.

Non è difficile capire perché. Ho conosciuto Michela, non l’ho semplicemente letta sui libri, sui giornali che spesso riportavano le sue opinioni senza contesto con intento da autentici bulli. Non lo dico a caso. Lo dico con cognizione di causa. In questi anni in cui abbiamo potuto leggere le opinioni di Michela Murgia in pubblico non c’è mai stato un momento in cui i suoi interventi si limitassero a uno slogan di poche frasi. Michela aveva una precisione chirurgica per le parole, non le usava a caso, basterebbe leggere uno dei suoi post ancora visibili su facebook, nella sua pagina, per capirlo. Certo, si può sempre non essere d’accordo con le sue opinioni, ma non si può dire che non le abbia sviscerate in modo comprensibile.

E io a volte non ero d’accordo con quello che diceva in pubblico. Il mio privilegio era poterglielo dire in privato. Via messenger.

Ho una chat che inizia nel 2009, quando Michela creò un profilo facebook per avere un accesso alla sua pagina, con cui ci scrivevamo dei botta e risposta. Non ricordavo nemmeno io di quante cose abbiamo parlato in privato. Ricordo meglio le mail che ci siamo scritte prima, nel periodo in cui Virzì stava girando o forse aveva appena finito di girare Tutta la vita davanti, tratto da Il mondo deve sapere.

Io ho conosciuto Michela perché aveva scritto un libro che mi riguardava, un libro sul mondo dei call center da cui ancora oggi cerco di scappare in qualche modo ma dove ogni tanto mi ritrovo ancora a lavorare. Conoscevo e conosco bene quel mondo e conoscevo e cercavo di fuggire dal tipo di call center che ha raccontato lei. Io per esempio non ho mai dovuto lavorare in un call center che procura appuntamenti per i venditori Kirby, proprio perché sapevo come funziona quel tipo di lavoro.

All’epoca eravamo due persone ancora precarie, che incidentalmente sapevano scrivere. Lei molto meglio di me, e non mi riferisco semplicemente alla questione formale. Michela aveva dei contenuti straordinari.

Oltre alla conoscenza del mondo precario, data dall’aver fatto qualsiasi tipo di lavoro prima di diventare scrittrice, aveva una conoscenza profonda della fede e della teologia. Credo sia stata l’unica persona, tra quelle che ho conosciuto nel mondo della cultura e dell’editoria, a capire i miei dubbi sul cattolicesimo. Durante una delle discussioni in chat mi ha spiegato qualcosa sulle lettere di San Paolo e la differenza tra il linguaggio usato con i romani e i tessalonicesi, che all’epoca non avevo afferrato, mi ci sono voluti i 48 anni per arrivarci.

Mi pare perfettamente inutile nominare l’apporto dato alle lotte femministe degli ultimi anni, è sotto gli occhi di tutti. In questo caso io ero una tabula rasa, essendo cresciuta con la seria intenzione di non essere femminista per molto tempo.

E anche qui.

Senza sapere che potevo contare su una Michela Murgia, una persona con cui potevo non concordare ma che non si sarebbe mai sognata di sbattermi la porta in faccia solo per questa ragione, forse avrei continuato a vedere il femminismo come quella cosa strana che mi avevano presentato un giorno alla Libreria delle Donne in via Dogana a Milano, eoni fa: davanti alla mia domanda, sicuramente molto ingenua, “perché una libreria solo delle donne?” mi risposero “se lo chiedi è perché non sei ancora pronta”. Ecco, era stata una frase così respingente, così poco disposta a spiegarmi cosa mi mancava per essere pronta, che per un sacco di tempo non ho voluto sentire parlare di femminismo.

Michela ha contribuito a costruire il mio bisogno di essere femminista senza mai pronunciare esplicitamente la parola femminismo in nessuna delle nostre discussioni private. Mi bastava la sua presenza e la modalità con cui venivano recepite le sue opinioni.

Capivo perfettamente da sola che le critiche feroci che arrivavano non tanto alle sue idee quanto alla sua persona non sarebbero mai state rivolte a un maschio. Critiche per un corpo non conforme, per il non essere mai accondiscendente, per i suoi modi. Critiche che arrivavano da uomini e donne, in questo Michela era trasversale.

Michela per me è stata una mentore senza nemmeno sapere di esserlo. Non l’ho capito nemmeno io fino a poco tempo fa.

Ci siamo viste poche volte, mentre vivevo a Roma. Un giorno mi ha portata a mangiare quello che per lei era il miglior panettone sulla faccia della Terra. Era cascata male perché ho cominciato ad apprezzare il panettone molto tardi. Di quel pomeriggio ricordo molto bene una passeggiata lunghissima al Rione Monti, mentre lei mi raccontava il lavoro a Quante Storie.

L’ultima volta che ci siamo viste è stato per caso, al Festival della Letteratura di Mantova, ed è stato l’incontro migliore. Mi ha riconosciuta lei, perché come sanno i miei 23 lettori che mi conoscono da una vita quando cammino per strada sono concentrata sempre su qualcosa, non vedo la gente che mi passa davanti, tendo a cercare di schivarla.

Quel giorno mi ha vista, l’ho riconosciuta (perché c’è anche il rischio che io non riconosca le persone, quando le incontro per strada, non è cattiveria, è che sono sempre e comunque per i fatti miei quando mi incontrate per caso), e lei si è avvicinata e mi ha abbracciata come se fossimo state amiche da sempre, in un modo con cui io non ho mai abbracciato nessuno. Si capiva che era contenta di vedermi, cosa di cui non mi sono mai data una spiegazione, ma che resta uno dei miei ricordi più belli in assoluto. Non solo di Michela Murgia, ma di qualsiasi persona con cui abbia mai condiviso anche solo un po’ di opinioni in chat.

Ed è quello che racconto, e che racconterò sempre di Michela, tutte le volte che mi capita e mi capiterà di parlarne a quattr’occhi. Era quella capace di venirti ad abbracciare come se fossi una persona che le mancava moltissimo, anche dopo anni, così, senza preavviso.

(ho parlato di Michela Murgia parlando di me, lo so perfettamente. Ma questo è il mio ricordo di una persona cara che è mancata, e noi esseri umani facciamo questo, dopo le esequie: parliamo dei nostri morti, perché abbiamo delle memorie con loro che li rendono ancora presenti. Per tutto il resto ci saranno anni di tempo. Adesso per me è il momento del lutto)

Una storia semplice

Questa storia comincia un sacco e una sporta di tempo fa, prima che io nascessi.

Questa storia riguarda mia madre e riguarda me.

La storia comincia quando mia madre era giovane, molto prima di incontrare mio padre e di sposarsi.

Non ho mai capito come si fossero conosciute, mia madre e Ambra, perché mia madre non raccontava molto, o almeno ci provava ma l’affabulazione non è mai stata un tratto peculiare dei Greppi.

Quello che so di mamma lo so da papà e dal racconto della sua amica Ambra.

Ambra la conoscevo da bambina, Ambra dalle poche frasi intelligibili di mamma era la sua amica che aveva sposato un ingegnere e che aveva mandato i figli allo Zaccaria. Lo Zaccaria per i non milanesi è uno dei licei più blasonati e più tosti di Milano ed è frequentato da gente di un certo tipo. Il tipo che io non sono e che non potrei diventare perché quel tipo di persona ci nasci per famiglia e per cultura.

È una scuola per gente della Milano bene.

Allora io dai racconti di mamma pensavo ‘va che cosa figa, quindi Ambra ha fatto la scalata sociale, allora si può’.

Dalla figlia di Ambra io ho ereditato una serie di vestiti di buona qualità che essendo figlia degli anni 70 mi mettevo tranquillamente, eravamo bambini abituati al riuso da molto prima che diventasse una roba da radical chic. Eravamo figli e nipoti di generazioni che avevano ancora una memoria vivida della miseria della guerra e se ti passavano un cappotto nuovo e di sartoria che una bambina non metteva più te lo mettevi anche se tuo padre con il suo lavoro prendeva pure la quindicesima. Perché quello era il mondo.

Da bambina ho visto Ambra e sua figlia Federica, nella loro casa in zona Porta Romana, e non lo sapevo all’epoca ma vivevano in una delle zone ricche di Milano. L’ho scoperto dopo anni.

Il figlio Carlo, più grande, era una figura mitologica di cui si parlava tanto ma chi lo aveva mai visto?

Federica invece era reale.

Ed è stata anche una persona importante per la mia scrittura, anche se non lo ha mai saputo.

Ma andiamo con ordine.

Quando mamma è morta ho dovuto fare quella cosa sgradevole che fanno i figli: recuperare tutti i contatti delle persone che l’hanno conosciuta e chiamarli.

Ambra era la prima che mi è venuta in mente ma di Ambra non avevo un numero di telefono perché ormai usava solo un cellulare e mamma non lo aveva mai scritto da nessuna parte. Quando si parlavano era Ambra che la chiamava.

Così ho cercato il nome di Federica su facebook, una delle poche volte in cui facebook è stato utile. L’ho trovata facilmente, il suo cognome è inusuale e soprattutto c’era lo Zaccaria come riferimento. Non era possibile che ci fossero più Federica con quel cognome che avevano frequentato lo Zaccaria.

Le ho scritto e le ho raccontato tutto quello che era successo, lasciando il recapito.

C’è voluta qualche settimana perché Federica leggesse il messaggio, perché Facebook non mostra le richieste di messaggio di chi non è tra i tuoi contatti, le nasconde.

Un sabato sera mi arriva una telefonata da un numero sconosciuto. È Ambra e io capisco che il messaggio è stato ricevuto.

E lì succede una cosa che non sapevo potesse succedere ma me lo sarei dovuto aspettare.

Ho pianto poco, per la morte di mia madre, me ne sono resa conto e me ne rendo conto da sola. Sono frastornata, faccio un sacco di cose e mi sono specializzata nella fuga. Tutto quello che posso fare per non pensarci lo faccio.

Lì non potevo scappare da nessuna parte perché avevo innescato io la chiamata che in quel momento non volevo sentire.

E ho cominciato a piangere. Non sapevo nemmeno se ero in grado di gestire il dolore di una persona che era lì con mia madre prima che io nascessi.

Alla fine l’ho fatto e dopo i racconti di quando erano giovani e il rimpianto di non essere potuta venire al funerale, abbiamo cominciato a parlare di noi figli che siamo grandi.

E ci siamo sentite via whatsapp, lei sa come usarlo grazie a Dio, per cercare di organizzarci e vederci.

Non sono fuggita, stavolta. Ci sono andata. E ci sono andata per scoprire che tutto quello che avevo sempre pensato non era reale. Ambra mi ha raccontato una storia completamente diversa, di due persone che erano di due classi sociali diverse ma si sono incontrate e volute bene.

Perlomeno da parte di Ambra è stato così, perché mamma era difficile da comprendere.

Dovevo stare poco, avevo un impegno. Sono stata due ore e tre quarti a farmi raccontare persone che avevano popolato la mia infanzia dal punto di vista di mia madre e la loro evoluzione.

Ho trovato una famiglia finalmente funzionale, di persone che sono insieme sapendo perfettamente perché hanno messo su famiglia.

E in tutto questo racconto di cose passate, presenti e dove si vedeva un futuro, una delle cose più difficili da immaginare di questi tempi, è arrivato lo spin off.

Una cosa che era di Federica, solo di Federica, e in un certo senso anche solo mia, perché nessuno fino a quel giorno ne aveva mai saputo nulla.

È successo che all’università ho trovato su una rivista di noi universitari un racconto scritto da Federica, un racconto a sorpresa, perfetto per lunghezza e per numero di parole, un racconto che giustamente ha vinto un premio.

Ho ritagliato quel racconto e l’ho tenuto nel portafogli per anni. Anche a Roma lo avevo nel portafogli.

Quel racconto ha superato cambi borse, cambi portafogli, inondazioni di acqua dovute alla pioggia o a bottigliette chiuse male, era un foglietto dai bordi consunti ma ogni tanto lo rileggevo e avevo la stessa sensazione iniziale.

Un giorno sulla metro B mi hanno rubato il portafogli.

Quel racconto è l’unica cosa che avrei voluto riavere indietro e che non era recuperabile.

Quel giorno ho parlato per la prima volta del racconto che mi ha tenuto compagnia per anni e che non avevo più all’unica persona che poteva forse aiutarmi a recuperarlo. Presente quando Harry Potter ripara la sua bacchetta con la bacchetta di sambuco perché se non riesce quella allora non c’è più niente da fare? Ecco, così.

Il giorno dopo Federica mi ha mandato una foto del racconto tramite facebook.

Ed è stato un giorno bellissimo.

Come è stato un bel giorno quello in cui sono andata a parlare con Ambra perché dovevo recuperare un po’ di mia madre da chi la conosceva prima che nascessi.

Il racconto.

Altri pensieri spettinati da facebook

Dal mio profilo facebook, giorno 1 marzo 2023

Io lo scrivo qui e voi ricordatemelo in futuro.

Attualmente sono iscritta a Possibile e non posso iscrivermi ad altre formazioni politiche. È così per legge.

Sto guardando con attenzione ciò che potrebbe capitare nel PD con Elly Schlein segretaria.

Non ho grandi illusioni, sia chiaro. Non è lì come elemento dirompente. Anzi, non credo che sarà la persona che cambierà davvero qualcosa nel PD.

Ma.

Nel PD esistono già persone con un’attenzione forte ai temi che mi stanno a cuore. Tra cui l’accoglienza.
Il candidato che ho votato alle regionali, Pierfrancesco Majorino, già nel 2017 si mise di traverso a Minniti qui a Milano e fu tra i promotori di una manifestazione a favore dell’accoglienza. A Minniti, che per me è stato uno dei punti di non ritorno del disamore per il PD nazionale.

Ora.

Io so che il PD su questi temi è intelligente ma si applica poco, a volte con iniziative individuali che stanno tanto sugli zebedei alla sua anima più conservatrice.

So che se parla di diritti umani arrivano ondate di ‘siete bolscevichi’ come se davvero ai bolscevichi di antani fosse interessato dei diritti umani. O accuse di radicalismo. Come se fosse un’offesa.

Ecco.

Io vorrei che in questo anno il PD con Elly Schlein segretaria si prendesse tante di quelle accuse di bolscevismo e radicalità, ma pure di buonismo, perché no, da far spaventare le vecchie impellicciate della borghesia di destra milanese.

Vorrei che partisse da una proposta concreta di abrogazione della Bossi-Fini, e che continuasse con una revisione del Jobs Act. Sul salario minimo ci siamo quindi posso passare agli ammortizzatori sociali tipo il mantenimento e il perfezionamento del reddito di cittadinanza, per renderlo universale.

Temo sia chiedere troppo se mi azzardo a parlare pure di referendum costituzionale per l’abrogazione del titolo V perché la sanità deve tornare materia del ministero e non di 20 regioni e avrei anche delle questioni irrisolte a proposito della Nato ma non è che si può avere tutto.

Mi potrei accontentare dei primi due punti come prima parte del piano ormai quadriennale per le prossime politiche.

Di sicuro dimentico qualcosa. Mi verrà in mente.

Ma i primi due punti per me sono basilari per scegliere, il prossimo anno, di tesserarmi. E di conseguenza votare PD.

Sono qui che guardo. Ho pure gli occhiali nuovi e ci vedo meglio.

(Sono le mie speranze per il futuro. Potete venire a scrivere quel che vi pare, non cambieranno. Al massimo possono virare ancora più a sinistra ma sono le basi per il mio mondo migliore)

Dialoghi tra padre e figlia

Io: “papà, ci pensi che questo era l’anno del cinquantesimo di matrimonio?”

Papà:”e nun ce semo arivati, embè?’

Il giorno dopo.

Papà: “ho trovato una foto da mettere vicino a mamma*. Visto che sarebbero stati 50 anni l’ho presa dall’album del matrimonio”

La foto:

*papà vive al nord dagli anni 60 eppure parla ancora tutto il suo romanesco. Quindi io sono mezzosangue e bilingue. Non trilingue perché il laghée non l’ho mai imparato.

Pensieri spettinati*

*Pubblicato su facebook il giorno 25/01/2023. Da questo momento riporterò sul blog i post di facebook che voglio conservare, per evitare il rischio di blocchi futuri e inaccessibilità dovuta alle idiosincrasie di Meta

Sto rimettendo a posto cose e persone dei giorni scorsi, quando sono andata con il pilota automatico.

Non so ancora bene come prendere questo fatto che la donna che mi ha messa al mondo non c’è più, probabilmente lo capirò nei prossimi tempi, con calma e con molte parole scritte, non tutte date in pasto ai miei 23 lettori.

Di sicuro ho individuato due momenti terribili che non dovrebbero mai capitare a nessuno nella vita ma che temo siano difficili da scansare se si sopravvive ai propri genitori.

Il primo è stato andare da mio padre a dirgli che mamma non c’era più.
In quel momento mi sono sentita piccola, non sola perché c’era qualcuno ad accompagnarmi, ma di sicuro mi sono sentita come se invece di 47 anni ne avessi 5 e contemporaneamente 80 con tutto il peso del mondo addosso.

E per fortuna mio padre è un uomo fatalista che non ha mai pensato che lui o sua moglie sarebbero vissuti per sempre. Ringrazio i geni dalla linea gotica in giù per questa cosa perché un po’ di sana lucidità e una dose di ironia in questi momenti serve, insieme al fatalismo.

L’altro è stato andare, da sola, all’anagrafe per chiedere la dichiarazione sostitutiva di atto notorio per attestare il decesso di mia madre e portare il documento alla banca. È stato il primo momento in cui ero io a dichiarare a qualcuno che mia madre è morta e non il contrario, e a un certo punto non sapevo nemmeno io cosa stavo facendo o dicendo.

Mi sono scusata perché ‘è la prima volta che muore mia madre’ con l’impiegato davanti a me, che non ha infierito. Anzi.

Ma almeno l’atto notorio, miei piccoli lettori, fatelo chiedere a qualcun altro perché vi maciulla le viscere.

I miei genitori il giorno del matrimonio. La foto è molto più rossa di quanto dovrebbe, nonostante gli anni e i colori delle foto degli anni 70 ormai rovinati. Ma sono loro e mio padre ha gli occhi da pesce lesso come li ha sua figlia quando guarda le persone che ama. Sono belli tutti e due ma da brava bambina innamorata del papà vi dirò sempre che il mio papà è bellissimo e sembra un attore. Però non fategli sapere che ho pubblicato una foto sull’internet sennò si incazza.

Le parole che non avrei voluto dirti*

Quando Giammarco mi ha chiesto di scrivere il ricordo di mia madre, “perché tu sai scrivere”, mi è venuta l’espressione del “Ti te set scemo”.

Da quando ero adolescente ho cercato di scappare da mia madre in tutti i modi, facendo tutte le cose che lei non avrebbe mai capito, e arrivando a mettere 600 chilometri di distanza tra noi.

Poi ci ho pensato meglio. E mi sono ricordata che ho parlato spesso di mia madre, direttamente e indirettamente.

Senza nominarla ne parlo quando scelgo i miei personaggi femminili, e sono tutte donne che con la loro madre hanno un rapporto conflittuale, in eterna ricerca di risoluzione nell’arco della storia. Sì chiama arco di trasformazione del personaggio, in sceneggiatura. Il personaggio si evolve e cresce. Matura.

È facile farlo sulla carta. È più difficile farlo nella vita di tutti i giorni perché non puoi barare con le ellissi temporali.
Se hai uno scazzo lo devi affrontare, non puoi cambiare scena.

Nella vita il modo migliore per affrontarlo, a volte, è proprio andarsene e guardare le cose da lontano.

E guardando mia madre da lontano ho fatto pace se non con la madre almeno con la donna che è stata.

Ora, magari chi l’ha vista negli ultimi anni e non l’ha conosciuta tempo fa non può saperlo, ma prima che i dolori articolari si mangiassero la sua lucidità, mia madre è stata una persona attiva mentalmente e fisicamente.

La mamma camminava. Non aveva la patente, come me, quindi era giocoforza uscire di casa a piedi e spostarsi coi mezzi. E ho una memoria molto precisa di lei che ci porta ovunque a piedi. Dai nonni in via Rasori, per esempio. O a tutte le attività sportive che abbiamo praticato da bambini. O in tutte le chiese dei posti dove siamo stati in vacanza, Roma inclusa. Tralasciamo il particolare che Roma non equivale a una vacanza ma a un tour de force, ma è un’altra storia.
Quindi fin da bambina io camminavo perché così faceva mia madre.

Mia madre non è stata solo una madre. È stata prima di tutto una figlia e non ha smesso di esserlo in nessun giorno della sua vita. Lo so perché quando aveva dei dolori molto forti chiamava la nonna, che non c’è più da tanti anni ma evidentemente non se n’è mai andata.
So per certo che le mancava anche il nonno, che manca anche a me, e diciamo che sono piuttosto sicura che adesso sia in un posto dove ci sono entrambi. O meglio. Non ci credo ma ci spero. Lei ci credeva, quindi sarà certamente così.

Mia madre è stata una donna nata in una famiglia che sulla carta non aveva i mezzi per farla studiare e che nonostante questo invece di fare la sarta come avrebbe voluto una certa tradizione, se sei povero vai a fare un lavoro manuale, ha frequentato le scuole, il famoso avviamento voluto dalla Riforma Gentile, ha imparato la stenografia e la dattilografa e a far di conto e ha cercato un lavoro di ufficio.

E lavorare le piaceva. So per certo che se avesse potuto continuare a lavorare sarebbe stata molto più serena. Ma era una donna nata nel 1937 con tutta una serie di barriere mentali e sociali, e quando è diventata madre non sarebbe stato possibile immaginare una tata che si prendesse cura dei suoi figli. O magari per lei non sarebbe stato pensabile . Era difficile chiederle queste cose.

Mia madre è stata una donna molto bella. Lo so perché ci sono le sue fotografie di quando era giovane.
Ed era una donna a cui piacevano le belle cose. Le piaceva l’arte, soprattutto quella figurativa. Non so se avrebbe apprezzato certa arte contemporanea che a me piace molto anche quando non la capisco.

Mia madre non aveva studiato ma leggeva. Negli ultimi anni, quando non si riusciva più a farla uscire di casa per via dei dolori alle gambe, le ho comprato un Kindle, l’ho collegato al mio, e le ho fatto leggere gli stessi libri che leggevo io.
Lo ha fatto.
Nonostante non fosse una persona particolarmente informatizzata mia madre si leggeva i libri di gente che manco sapeva che esistesse o che grande personalità fosse, su questo coso che a volte cambiava pagina o libro senza che se ne rendesse conto.
Ma leggeva. Ci si addormentava sopra. E negli ultimi anni ha letto più di me.

Potrei dire tante altre cose ma alla fine quello che conta è che mia madre è una donna che ha vissuto, ha superato i grandi cambiamenti epocali tra due secoli difficili, ha visto la guerra anche se da bambina, ha visto la ricostruzione e ha visto tutto quello che c’è stato in Italia, a Milano, meglio ancora, in tutto questo tempo.
E alla fine della sua vita si è addormentata sulla sua poltrona e non si è più svegliata.

Ed è la cosa migliore che può capitare a tutti noi.

*il 9 gennaio è mancata mia madre. Mi hanno chiesto di scrivere il mio ricordo per leggerlo durante la funzione. Se non eravate al funerale vi siete risparmiati la mia incontinenza da parola scritta alla fine di una funzione comunque molto bella e dove si respirava molto affetto. Se c’eravate colgo l’occasione per scusarmi delle troppe parole.

Non se ne vanno mai.

Sono passati tre anni da quel 17 novembre.

Me lo ricordo come uno dei momenti più terrificanti della mia vita.

Era iniziato come tutti i giorni di novembre, pioveva, sono andata al lavoro in quel posto che stava in culo ai lupi in Bovisa, che per arrivare in orario ci mettevo un’ora e mezzo baciandomi i gomiti quando Trenord partiva da Cadorna senza tenerci in ostaggio sul treno.

Avevo fatto pausa come tutti i giorni, in una stanza dove non c’era nessuno, e nei call center non è semplice trovare stanze dove non c’è nessuno.

Mi arriva una chiamata di papà. E io vado subito in ansia perché papà sa che non deve chiamarmi al lavoro la mattina. Quindi se chiama io vado in preallarme perché è successo qualcosa di sicuro. Ho i genitori anziani e può succedere da un momento all’altro.

Però non era papà e non era mamma. Era l’ultima persona che mi aspettavo, stupidamente, visto che con papà si portavano tre anni di distanza e tutti e due hanno visto la guerra.

Era morto zio. Lo zio. Quello a cui scrivevo lettere da adolescente. Quello che da bambini cercava di farci dipingere regalandoci cose per dipingere, appunto. Quello con cui litigavo davanti ai quadri. Quello che mi ha ripetuto sempre, costantemente, di scrivere. Se stavo scrivendo. Quello a cui non vedevo l’ora di regalare il mio romanzo l’anno dopo.

Quello che veniva tutti i giorni a farmi le iniezioni mentre ero a Roma da sola con la broncopolmonite.

Io di quel giorno mi ricordo che sono diventata catatonico, mi sono chiusa in bagno e quando è arrivata una delle mie team leader a cercarmi e mi ha chiesto se andasse tutto bene le ho risposto ‘è morto mio zio’ e le sono scoppiata a piangere addosso.

Poi sono andata a casa e ho deciso che non volevo più ricevere una notizia così in un posto del genere. Perché non possono dirti che tuo zio, la parte migliore della tua famiglia, quella che nonostante tutto amava la vita e ne era curiosa, è morto e tu non sei nemmeno in un posto decente dove ricevere la notizia.

Da lì è cominciato un periodo che sembra un’eternità e invece erano pochi mesi, circa un anno, che chiamano lutto.

C’erano giorni in cui pensavo che non avrei mai smesso di piangere.

Poi ho smesso, perché non può piovere per sempre.

Però zio non se ne è mai andato davvero. È come se fosse sempre qui. Un po’ come i nonni, che sembra che ci siano ancora anche se non ci sono più da anni.

Zio è così presente che a volte mentre faccio il caffè me lo ricordo nella sua cucina, a Pietralata, con la luce che entrava dalla porta finestra che dava sul giardino dove coltivava anche il basilico di quelli che chiamava i suoi possedimenti, quello con cui faceva il pesto.

E mentre faccio il caffè comincio a piangere da sola nella mia cucina pensando al caffè di zio e a quella casa che sembrava una casa museo con i suoi quadri, un po’ come tutte le case dei fratelli Dea, perché tutti siamo stati invasi dai quadri di Giancarlo.

E mi ricordo che io a casa mia non ho nessuno dei suoi quadri e mannaggia devo andare a prendermi almeno i miei, così me lo ricordo anche guardando le pareti di casa mia, che non se ne è mai andato.

Di mondi diversi e di altri demoni

La mia amica Lilith è una che ogni volta che dice cose mi fa pensare seriamente.

Di solito parla di scuola perché la conosce e conosce la scuola di cui nessuno parla mai perché quelli che parlano di scuola sono sempre quelli che possono mandare i figli al liceo.

Lei parla delle scuole che nessuno vuole mai sentire nominare e che conoscono solo quelli che le frequentano.

E in quelle scuole c’è il mondo fuori dalle nostre meraviglioso bolle che sono sempre e comunque dalla parte giusta.


Sono le scuole dove vanno i figli di quelli che non sappiamo neppure che esistono e se lo sappiamo lì vogliamo evitare come la peste perché non saranno mai alla nostra altezza.

Sono quelli che non hanno una pallida idea che le scuole italiane siano garanzia di pari opportunità per tutti perché le pari opportunità nemmeno sanno cosa siano.

Quelli erano i miei compagni delle elementari, i miei vicini di casa, i bambini e adolescenti più disagiati che incontravo all’oratorio e che facevano paura persino ai preti, a certi perlomeno, perché il cristianesimo è un po’ come la democrazia, è facile pensare che siamo tutti uguali o che bisogna amare tutti, ma provaci con uno che è diverso da te, che ha idee diverse o che semplicemente è stronzo perché intorno gli hanno sempre insegnato cose stronze e ha imparato solo quelle.

Adesso sono quelli che prendono il 15, che si spostano sui tram periferici che non prende mai nessuno se poco poco può evitarli, ma loro non li possono evitare.

Sono quelli che spesso hanno figli che finiscono in quelle scuole che non interessano a nessuno.

Sono quelli che da quella storia che i diritti valgono per tutti vengono sistematicamente presi per il culo.

A me Lilith ogni volta che racconta della sua scuola fa venire in mente che potevo esserci pure io, in mezzo a quelli, e sarebbero stati solo cazzi miei.

E mi ricorda pure che avere vissuto in molti mondi è una ricchezza, pure se a me sembra una roba che non mi rende né carne né pesce.

O come direbbe Balto, vedi le grandi citazioni cinematografiche del sabato pomeriggio, né cane né lupo.

Ma alla fine mi sa che ha ragione lei, e che il mondo visto per intero invece che a pezzi che non si congiungono mai è quello che vale la pena.

Pure quando sembra persino troppo per raccontarlo.

Ciao, Milano Pride. Ti aspettavo da tre anni e sei tornato

Mi hai cambiato il giorno e per fortuna ho guardato l’ora di partenza per tempo altrimenti due sabati fa arrivavo a Centrale, mi guardavo intorno e dicevo ‘dove sono tutt*?’

Mi hai cambiato il percorso, è più largo, e più lungo, e hai fatto bene.

Sei partito alle tre del pomeriggio con il ritrovo alle due sotto il peggior caldo del millennio e mi hai regalato un attacco di panico, ma sono arrivata alla fine, è una piccola vittoria. Soprattutto ero nel posto migliore per avere un attacco di panico perché al Pride non ti lascia lì per terra nessuno.

Mi hai permesso di rivedere Stefano Andreoli, erano 10 anni che non ci vedevamo e ci incrociavamo solo on line. Son cose.

Mi hai permesso come sempre di essere scema e cantare canzoni trash mentre facevo qualcosa di terribilmente serio, perché pure se stai cantando le canzoni di Raffaella il Pride è un momento politico. Questo non me lo scordo mai.

Sei sempre più pieno di ragazzi, ed è bellissimo che i ragazzi siano li con noi vecchi a ricordarci che il mondo cambia e le consapevolezze pure. Forse i loro figli faranno Pride in memoria del Pride, ma non è ancora quel momento. Per ora c’è bisogno del Pride e non della sua memoria. Per ora ci sono diritti da consolidare e allargare.

Sei stato il primo Pride senza Roberto. Ma era lì lo stesso.

Sei stato devastante comunque, perché 4 ore sotto il sole sono difficili e pure la folla all’Arco della Pace non ha scherzato. Il prossimo anno prenota la pioggia.

Sei stato bello come sempre e sei ancora più bello oggi che tutti quelli che al Pride non ci vengono sono a casa a rosicare perché siamo sempre di più, sempre bellissimi e sempre più ostinati.

Sei stato come sempre pieno di amici che non ho incrociato, ma che erano lì perché la mia famiglia allargata quando bisogna fare la cosa giusta è sempre al posto giusto.

Ciao, Milano Pride. Ci vediamo il prossimo anno. Magari prenota un po’ di ombra e una decina di gradi in meno. Oppure trova uno sponsor che oltre ai preservativi distribuisce magnesio e potassio.