Come stai?

Come stai è la domanda.

Quella che non mi fanno quasi mai.

Mi chiedono come va con il lavoro.

Sì, da venerdì ho un nuovo lavoro e stavolta non ho dovuto rimandare il contratto al mittente. Ma ne riparleremo con calma perché è sempre precario. Posso solo dire che mi serviva per non collassare.

Mi hanno chiesto come va dai miei. Sono anche riuscita a rispondere perché non riguarda me. Riguarda loro. È facile se non riguarda me. Sono quelli che sto guardando da fuori.

Mi hanno chiesto come sta mio fratello. Moo padre. Anche lì. Posso rispondere senza problemi. Vanno avanti. Poi a casa mia non si parla mai di come si sta davvero. Se succede è perché è morto qualcuno. E in effetti non è successo nemmeno quelle volte. Siamo fatti così.

Mi hanno chiesto come va con l’uomo della pasta coi broccoli. Ecco, lui si trasferisce qui a breve. Così tra le altre cose ricomincio a mangiare in modo decente. Perché sono due mesi che mangio da schifo. La cosa buona è che entro nei kilt di mamma perché mi si è un po’ asciugata la vita.

Quello che mi chiedono poco, ed è un bene, è come sto.

Come sto io, non il resto della famiglia. Non come va, il come va non è impegnativo. Puoi prenderla alla larga, se ti chiedono come va. Puoi scegliere la parte migliore delle giornate e tralasciare la peggiore.

Forse è per questo che non mi chiedono come sto. Se devo rispondere a come sto parto dalla mattina quando mi sveglio due ore prima dell’alba, da sola nel letto, e comincio a farmi il primo pianto della giornata, perché a quell’ora non c’è niente che mi può distrarre. La testa va dove vuole andare e vuole andare sempre lì, come i piedi quando non ho una direzione precisa mi portano in tutti i posti dove sono passata con mia madre da quando ero bambina a quando riusciva ancora a camminare.

Ho fatto via Rasori cercando la sua casa. Ho fatto largo Cherubini perché raccontava sempre di quando in Mangiagalli un’infermiera le ha raccontato che nella stessa stanza dove stava lei era stata Gemma Capra, quando ha avuto uno dei figli. Via Rasori e largo Cherubini sono a distanza di pochi metri. Non è difficile arrivarci.

Oh, poi chissà se è successo davvero o se mia madre aveva i ricordi falsati, ma fa parte della mitologia di famiglia.

Ho fatto corso Vercelli e piazzale Baracca.

Sono passata per San Pietro in Sala dove si sono sposati, ma era chiusa.

Sono stata in posti dove è andata da sola con papà e zia. Come la Pinacoteca Ambrosiana. Ha conservato il biglietto. Io c’ero andata per non pensare e invece era lì dove non sono mai stata con lei.

Sono stata allo sportello filatelico, anche se non è più nella posta centrale di Cordusio. Ma quando eravamo bambini faceva la fila per comprare le nuove emissioni il primo giorno. Per l’annullo. Cose da collezionisti. Era l’unica cosa che comprava in un periodo in cui non poteva permettersi niente. Io sono quella che colleziona ancora francobolli.

Giro per Milano nei posti dove so di trovarla. E sono tanti.

Il più delle volte cammino, guardo e penso.

Me lo chiedo anche io, come sto. E comincia piangere.

Un po’ come faccio quando me lo chiede qualcuno.

Vado in apnea per un secondo e non parlo più.

Perché non lo so come sto. So che voglio la mia mamma e la mia mamma non c’è più.

Ecco come sto.

Un pensiero su “Come stai?

  1. oh, il “come stai”! Questo “il mondo positivo” è un account condiviso tra due autori di un progetto specifico perciò non amiamo fare gli “psicoblogger” scrivendo a titolo personale ma adesso ho io in mano il profilo, ho visto un articolo che mi tocca da vicino e rispondo singolarmente come Alessandro -Gifter per gli amici-.
    Conosco bene la sensazione che si prova quando gli altri evitano di chiedere “come stai” perché o ne hanno paura per primi o percepiscono che ne hai paura tu allora ci rinunciano pur sapendo che ti farebbe piacere sentirlo.
    Io non ho avuto lutti importanti come il tuo ma ho un’esperienza che ha diviso la vita in “prima” e “dopo” 2013.
    Prima: il “come stai” era una frase di circostanza come se la mia salute fosse scontata (per gli altri, più che per me). Allora “bene”, “benone”, “non c’è male” erano all’ordine del giorno.
    Questo fino alla svolta: dal 2013 vive con me un ospite di cui avrei voluto fare a meno perché arrivato in casa mia a causa di una persona fidata, si chiama HIV. All’inizio senti di non riconoscerti più, così mentre cerchi di imparare a convivere con la nuova situazione percepisci i “come stai”, specie quelli dei pochi a conoscenza della condizione, come fastidiosi addirittura.
    Perché già tu sei in difficoltà ad accettare il tuo nuovo status, preso come sei da tutte le campagne terroristiche degli anni 90 finalizzate a mettere in guardia le persone da comportamenti a rischio quando ancora non esistevano cure efficaci, le cosiddette “pubblicità progresso” che alla fine hanno instillato il pregiudizio “HIV -> AIDS -> morte certa -> pericolo per gli altri” anche se al giorno d’oggi tale “spada di damocle” non esiste più se, come me, segui una terapia farmacologica regolare. Allora il “benone” o “bene” in risposta al “come stai” erano cambiati in “il solito”, restava il “non c’è male”, oppure l’irritato “come vuoi che stia” quando a parole la gente esibiva affetto però dagli sguardi si leggeva paura e commiserazione; con l’esperienza ho appreso che rispondendo così mi portavo dietro ancora più stigma di prima allora nel tempo ho imparato a ironizzare facendo il verso al pietismo e tutt’ora mi capita di rispondere “positivo” o “le persone positive stanno sempre bene per forza”, quest’ultimo messaggio intenzionato a rimarcare che HIV e AIDS non sono la stessa cosa, che io sono una persona sana con un’aspettativa di vita al pari degli altri grazie alla scienza, e pazienza se la sfumatura viene compresa da pochi. Sempre fermo restando le persone a conoscenza del mio status che non sono tutte, a distanza di anni il “benone”, “bene”, “insomma” sono tornati come prima. Ecco: né pre-2013 né tanto meno ora, ho mai amato rispondere “male” o “potrebbe andar meglio” perché tali frasi implicherebbero che poi la gente ti fa più domande non richieste.
    Durante il covid poi, il “come stai” ha preso un altro significato, per tutti, ma resta comunque una domanda che incute paura delle risposte!
    C’è stato pure un tempo in cui per non pensare al mio status ho creduto fosse amore quello di una persona che il “come stai” non lo usava. Una persona per la quale era scontato: “stai bene, per cosa vuoi che te lo chieda?” Quando invece fra le situazioni quotidiane della vita è importante anche preoccuparsi per la salute e stato d’animo di chi abbiamo accanto.
    Il “come stai” di chi ti ama davvero, poi, quello è una medicina. Quello della persona che si sveglia accanto a te e ti dice “buongiorno, come stai?” E tu gli sorridi, “starò meglio dopo il caffè”.
    Il “come stai” di chi non ha paura di sentire se per qualunque ragione stai male, né di affrontare l’argomento medicine quando serve, il “come stai” che gli chiedi tu quando il suo sguardo o atteggiamento ti dice che bene non sta…
    Riprendiamocelo il diritto di chiedere e ricevere “come stai”, arrabbiamoci se serve, ma non affoghiamo nel dolore. Qualunque mezzo va bene per sfogarsi quando “non si sta”, anche scriverlo su Internet come hai fatto tu. Condoglianze e un abbraccione.
    Alessandro “gifter”.

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