Nessuna buona azione resterà impunita

Sono giorni strani.

Ho cominciato un lavoro di cui non ho ancora parlato, anche perché la sua peculiarità è che non resterà né lo stesso né nel luogo dove mi trovo ora.

La cosa sicura è che è un lavoro precario come al solito ma un po’ più lungo del solito mese più proroghe (mica può sempre andare come lo scorso anno che mi ritrovo un contratto di sei mesi e un rinnovo di 7, o poco meno, siamo seri).

Scado a fine giugno e forse mi prorogano o forse no. In questo momento è la cosa che mi preme di meno, lo so che non ci avreste mai creduto ma in questo momento preciso la questione economica è la meno pressante.

Mi preme quello che succede in questo posto. È un lavoro con un contratto della sanità pubblica, con uno stipendio decente e con un orario che non ho mai visto prima.

È ovviamente un contratto in somministrazione, perché una delle poche cose che so per certo è che per un indeterminato nella sanità pubblica devo vincere un concorso. Per un indeterminato senza vincere un concorso bisogna sempre sperare nella sanità privata. Un po’ come per le cure in tempi brevi in Lombardia.

Però ormai ci ho fatto la pace, con questo fatto di non poter mai nemmeno vedere col binocolo un indeterminato. Quindi va bene così. O ce lo facciamo andare bene, che non è la stessa cosa ma almeno non ti crei quelle aspettative antipatiche che quando non vengono attese ti lasciano un senso di frustrazione che levati

Preferisco concentrarmi sul lavoro che sto facendo e che non è nemmeno quello che andrò a fare tra un paio di mesi (forse, chissà, non so ancora niente, scopro cose di settimana in settimana). Ora come ora sto facendo un lavoro di back office.

Una roba che mi sta dando la reale dimensione della mancanza di medici di base nella Regione di eccellenze (Formigoni, lasciatelo dire, il tuo concetto di eccellenza ha dei serissimi problemi, e non solo nel pubblico).

Una roba che mi fa sentire contemporaneamente in due film.

Uno è Il grande cocomero, infatti al piano ammezzato, tipo a una scala di distanza, ci sta psichiatria e a volte sono tentata di fermarmi li perché sarebbe il posto più consono per come mi sento in questi giorni (va detto, la sensazione non riguarda solo il lavoro, ma ne abbiamo già parlato fin troppo, o meglio io ve ne ho parlato e voi 23 lettori che ormai siete aumentati avete subito).

Magari uno di questi giorni mi trovo davanti Castellitto in camice bianco. Quando era giovane, guardabile, ascoltabile e materassabile.

L’altro film è Brazil. Che in effetti ho visto un sacco di tempo fa ma mi ha lasciato questa immagine di un corridoio degli uffici della burocrazia dove un sacco di gente va avanti e indietro e non ci capisce un cazzo.

E anche qui. Magari un giorno mi trovo davanti De Niro giovane e materassabile. Sì, ho capito. Sono vecchia. Ieri sera ho rivisto Sleepers e pensavo che tra Brad Pitt giovane e De Niro non più giovane io mi sarei portata a letto De Niro. Ma mica solo ieri sera. Pure quando a 21 anni l’ho visto al cinema. Niente, sono sempre stata vecchia.

Insomma sono in un ufficio di quelli che nella vita non mi capiteranno mai più. Purtroppo.

Non ho mai riso così. Non “tanto”, perché ho riso parecchio pure lo scorso anno, alla fine.

Non ho mai riso di risate così liberatorie. Ah, il tutto succede mentre si lavora, che magari qualcuno pensa che ridere in ufficio sia una distrazione. Non produci abbastanza.

Io sono in formazione, sto lavorando mentre mi spiegano cose, e cazzo, ho gente che mi spiega cose di continuo. È una formazione in itinere con momenti di ilarità. Ripeto. Non succederà più e lo so già ma non ho mai avuto così tanto bisogno di ridere delle cose sceme, quindi finché dura lo faccio.

Oggi però è successa anche una cosa che mi ha fatto piangere, fondamentalmente perché più invecchio e più mi rammollisco.

Oggi abbiamo avuto un cittadino che aveva un disagio grosso come una casa. Gli hanno rubato qualsiasi cosa. Portafogli. Documenti. Tessera sanitaria. Bancomat. Portafogli. Cellulare.

Cittadino fuori provincia. Addirittura all’estero negli anni precedenti. Una di quelle cose per cui non si poteva fare nulla. Infatti gli ho detto ‘se non ti danno i tuoi soldi in posta vienimelo a dire’.

Non so mica cosa mi è preso. Ma era un ragazzo solo a Milano che non poteva contare su nessuno perché ha la famiglia a sud, senza un amico e in balìa della burocrazia, che quando vuole essere stronza fa le cose per bene.

Quindi a un certo punto della mattina è tornato, perché non gli hanno dato i suoi soldi in posta. Voi direte ‘giustamente’ e io invece dico anche un po’ fanculo. Perché è una roba che mi manda ai matti e un giorno ne parleremo. Non oggi perché oggi è una giornata particolare.

E quando è tornato ho fatto l’unica cosa che potevo fare. Gli ho dato dei soldi che avevo nel portafogli. Non tanti perché non giro con troppi soldi ma nemmeno pochi per una che è eternamente precaria. Sì, perché va bene che non sono preoccupata per la questione economica, al momento, ma non ho ancora sposato un milionario.

E se non erano pochi per me figuriamoci per lui.

Poi sapete come fa la gente che è in difficoltà. Non vuole aiuto. Pensa che sia disdicevole. Una volta lo pensavo anche io. Poi ho dovuto cambiare idea.

Certe volte devi per forza farti aiutare. Perché certe volte sai perfettamente che la persona che hai davanti e ti dice ‘ci siamo passati tutti’ c’è passata sul serio.

Oggi la persona che c’è passata sul serio ero io.

Oggi ho anche capito che quella cazzata che ogni tanto ripeto, che nessuna buona azione resta impunita, è vera.

Perché prima o poi sarai tu nella condizione di restituire una buona azione e se non sei l’anello di congiunzione tra l’immondizia e il cestino che la contiene, restituirai un po’ delle buone azioni ricevute.

Che poi mi tocca sfatare un mito, tipo quella storiella che fare qualcosa di buono ti fa bene.

Io sono conscia di aver fatto una cosa buona oggi, ma la sensazione di non aver fatto abbastanza, perché alla fine la mia cosa buona di oggi non ha risolto un problema, è tutta lì, ed è diventata frustrazione.

Non basta la gratitudine momentanea a farla passare.

Perché io con questo senso di non aver potuto fare abbastanza ci passerò il tempo. Mi tornerà su all’improvviso come i peperoni mal digeriti quando meno me lo aspetto.

Pensieri che meritano un pettine.*

*da facebook, oggi.

Per alcune ragioni che non sto a raccontarvi (anche se seguendomi da anni potete facilmente intuire) ho bisogno di fare qualcosa che riguardi me, solo me e nient’altro che me.

Succede che in questo periodo è come se non esistessi se non in forma di una che ha un lavoro precario, una che è figlia, una che è sorella, una che ha un compagno, una che deve ascoltare sempre i cazzi altrui ma non ha mai un momento per raccontare i suoi.

Ecco, si, i cazzi miei li racconto, ho un blog, ma sempre meno. Sono sempre di più le cose che faccio per non pensare a quello che voglio fare io seriamente.
E io nella vita volevo fare solo una cosa seriamente.

Volevo scrivere.
C’era zio che mi ricordava sempre di scrivere ogni volta che mi chiedeva ‘stai scrivendo?’
C’è uno che me lo dice, me lo ha detto in tutti i modi, in uno persino un po’ brusco, che devo scrivere. Non lo vedo abbastanza sennò me lo direbbe di nuovo.

Quindi io vorrei davvero mettermi a scrivere.
Almeno a finire il mio romanzo eterno che purtroppo è stato risucchiato dalla vita, perché come tutti sapete la vita è quella cosa che si mette tra te e la prossima pagina da scrivere.
Nel mio caso la vita e l’affitto da pagare.

Però questa cosa mi serve e sto riflettendo seriamente, perché un editore, pure se agli aspiranti scrittori fa storcere il naso perché ‘ommioddio è crowdfunding!’, ce l’ho.

E forse è di nuovo quel momento della mia vita in cui devo fare una cosa per me.

Altrimenti affogo.

Come stai?

Come stai è la domanda.

Quella che non mi fanno quasi mai.

Mi chiedono come va con il lavoro.

Sì, da venerdì ho un nuovo lavoro e stavolta non ho dovuto rimandare il contratto al mittente. Ma ne riparleremo con calma perché è sempre precario. Posso solo dire che mi serviva per non collassare.

Mi hanno chiesto come va dai miei. Sono anche riuscita a rispondere perché non riguarda me. Riguarda loro. È facile se non riguarda me. Sono quelli che sto guardando da fuori.

Mi hanno chiesto come sta mio fratello. Moo padre. Anche lì. Posso rispondere senza problemi. Vanno avanti. Poi a casa mia non si parla mai di come si sta davvero. Se succede è perché è morto qualcuno. E in effetti non è successo nemmeno quelle volte. Siamo fatti così.

Mi hanno chiesto come va con l’uomo della pasta coi broccoli. Ecco, lui si trasferisce qui a breve. Così tra le altre cose ricomincio a mangiare in modo decente. Perché sono due mesi che mangio da schifo. La cosa buona è che entro nei kilt di mamma perché mi si è un po’ asciugata la vita.

Quello che mi chiedono poco, ed è un bene, è come sto.

Come sto io, non il resto della famiglia. Non come va, il come va non è impegnativo. Puoi prenderla alla larga, se ti chiedono come va. Puoi scegliere la parte migliore delle giornate e tralasciare la peggiore.

Forse è per questo che non mi chiedono come sto. Se devo rispondere a come sto parto dalla mattina quando mi sveglio due ore prima dell’alba, da sola nel letto, e comincio a farmi il primo pianto della giornata, perché a quell’ora non c’è niente che mi può distrarre. La testa va dove vuole andare e vuole andare sempre lì, come i piedi quando non ho una direzione precisa mi portano in tutti i posti dove sono passata con mia madre da quando ero bambina a quando riusciva ancora a camminare.

Ho fatto via Rasori cercando la sua casa. Ho fatto largo Cherubini perché raccontava sempre di quando in Mangiagalli un’infermiera le ha raccontato che nella stessa stanza dove stava lei era stata Gemma Capra, quando ha avuto uno dei figli. Via Rasori e largo Cherubini sono a distanza di pochi metri. Non è difficile arrivarci.

Oh, poi chissà se è successo davvero o se mia madre aveva i ricordi falsati, ma fa parte della mitologia di famiglia.

Ho fatto corso Vercelli e piazzale Baracca.

Sono passata per San Pietro in Sala dove si sono sposati, ma era chiusa.

Sono stata in posti dove è andata da sola con papà e zia. Come la Pinacoteca Ambrosiana. Ha conservato il biglietto. Io c’ero andata per non pensare e invece era lì dove non sono mai stata con lei.

Sono stata allo sportello filatelico, anche se non è più nella posta centrale di Cordusio. Ma quando eravamo bambini faceva la fila per comprare le nuove emissioni il primo giorno. Per l’annullo. Cose da collezionisti. Era l’unica cosa che comprava in un periodo in cui non poteva permettersi niente. Io sono quella che colleziona ancora francobolli.

Giro per Milano nei posti dove so di trovarla. E sono tanti.

Il più delle volte cammino, guardo e penso.

Me lo chiedo anche io, come sto. E comincia piangere.

Un po’ come faccio quando me lo chiede qualcuno.

Vado in apnea per un secondo e non parlo più.

Perché non lo so come sto. So che voglio la mia mamma e la mia mamma non c’è più.

Ecco come sto.

Altri pensieri spettinati da facebook

Dal mio profilo facebook, giorno 1 marzo 2023

Io lo scrivo qui e voi ricordatemelo in futuro.

Attualmente sono iscritta a Possibile e non posso iscrivermi ad altre formazioni politiche. È così per legge.

Sto guardando con attenzione ciò che potrebbe capitare nel PD con Elly Schlein segretaria.

Non ho grandi illusioni, sia chiaro. Non è lì come elemento dirompente. Anzi, non credo che sarà la persona che cambierà davvero qualcosa nel PD.

Ma.

Nel PD esistono già persone con un’attenzione forte ai temi che mi stanno a cuore. Tra cui l’accoglienza.
Il candidato che ho votato alle regionali, Pierfrancesco Majorino, già nel 2017 si mise di traverso a Minniti qui a Milano e fu tra i promotori di una manifestazione a favore dell’accoglienza. A Minniti, che per me è stato uno dei punti di non ritorno del disamore per il PD nazionale.

Ora.

Io so che il PD su questi temi è intelligente ma si applica poco, a volte con iniziative individuali che stanno tanto sugli zebedei alla sua anima più conservatrice.

So che se parla di diritti umani arrivano ondate di ‘siete bolscevichi’ come se davvero ai bolscevichi di antani fosse interessato dei diritti umani. O accuse di radicalismo. Come se fosse un’offesa.

Ecco.

Io vorrei che in questo anno il PD con Elly Schlein segretaria si prendesse tante di quelle accuse di bolscevismo e radicalità, ma pure di buonismo, perché no, da far spaventare le vecchie impellicciate della borghesia di destra milanese.

Vorrei che partisse da una proposta concreta di abrogazione della Bossi-Fini, e che continuasse con una revisione del Jobs Act. Sul salario minimo ci siamo quindi posso passare agli ammortizzatori sociali tipo il mantenimento e il perfezionamento del reddito di cittadinanza, per renderlo universale.

Temo sia chiedere troppo se mi azzardo a parlare pure di referendum costituzionale per l’abrogazione del titolo V perché la sanità deve tornare materia del ministero e non di 20 regioni e avrei anche delle questioni irrisolte a proposito della Nato ma non è che si può avere tutto.

Mi potrei accontentare dei primi due punti come prima parte del piano ormai quadriennale per le prossime politiche.

Di sicuro dimentico qualcosa. Mi verrà in mente.

Ma i primi due punti per me sono basilari per scegliere, il prossimo anno, di tesserarmi. E di conseguenza votare PD.

Sono qui che guardo. Ho pure gli occhiali nuovi e ci vedo meglio.

(Sono le mie speranze per il futuro. Potete venire a scrivere quel che vi pare, non cambieranno. Al massimo possono virare ancora più a sinistra ma sono le basi per il mio mondo migliore)

Pensieri spettinati (da facebook)

Post pubblicato su facebook il giorno 21 febbraio, in seguito all’annuncio della casa editrice Puffin di voler riscrivere le parti dei romanzi di Roald Dahl epurati del linguaggio considerato offensivo dagli esseri umani che popolano il mondo occidentale nel Terzo Millennio.

Questa cosa del linguaggio politicamente corretto applicata alle arti e ai mestieri (la scrittura in effetti è un’arte, ed è pure un mestiere, in molti casi, checché ne dicano gli aspiranti scrittori che non vogliono saperne di regole perché loro devono essere liberi di creare, quando nemmeno i veri artisti hanno mai cominciato nulla senza sapere cosa fosse la tecnica, ma lasciamo perdere altrimenti inizia un discorso che finisce il prossimo anno e nemmeno si conclude) non ha mai finito di convincermi.

La scrittura, la narrativa in modo particolare, descrive mondi che hanno loro linguaggi specifici e usa le parole che sono tipiche dei tempi in cui vive l’autore, a meno che l’autore non crei parole che vengono utilizzate nel mondo che sta descrivendo che non coincidono con le parole del vocabolario utilizzato nella sua lingua. Vedi J.K. Rowling in Harry Potter. Peraltro stiamo parlando proprio di una persona che si ritiene vittima del politically correct e che viene boicottata a causa delle sue idee transfobiche.

Di fatto la riscrittura dei libri di Roald Dahl, un uomo nato in un’epoca diversa, con sensibilità diverse ed espressioni decisamente meno attente ai sentimenti altrui (ma, oh, era così e nessuno, nemmeno chi si sentiva offeso, avrebbe mai pensato di chiedere un linguaggio differente, può chiederlo ora a chi arriva dopo, ma ancora oggi non lo chiede ai suoi nonni, per dire, perché non otterrà nulla di nulla) è un’aberrazione.

E francamente non serve a niente. Perché i bambini che leggono Roald Dahl non imparano quel linguaggio dai libri. Casomai se lo trovano in quei libri saranno spinti a chiedere perché ci sono parole che non sono consentite nel linguaggio di tutti i giorni e se sono bambini abituati a fare domande agli adulti che li circondano chiederanno.

Il problema invece è che esistono adulti spaventati all’idea che i bambini facciano domande. Che possano mettere in crisi la loro tranquillità. Che richiedano tempo per delle spiegazioni spesso impossibili da dare perché molti adulti non hanno idea di come spiegare le cose importanti ai bambini.

Allora che facciamo? Togliamo il problema. Riscriviamo i libri.

Cresciamo generazioni di bambini che non devono avere dubbi e non devono fare domande che mettono in crisi.

Sapete cosa? Mi pare che a voler riscrivere Roald Dahl siano i Signori Grigi. Chissà cosa succede se questi adulti scoprono che un altro scrittore, un giorno, ha raccontato ai bambini il mondo che loro volevano costruire. Forse lo tolgono direttamente dalle librerie e dalle biblioteche.

Tutte le reazioni:

3Chiara Messina, Laura ZG Costantini e 1 altra persona

E ricordate. Chi non vota Majorino (e Paladini. E Ambrosini) peste lo colga. Che se lo coglie in Lombardia con la gestione attuale è spacciato.

Facciamo un passo indietro. Alla settimana del 9 gennaio.

Facciamo anche un rapido riassunto: gennaio è stato una merda.

Quella settimana sono successe due cose: prima è morta mia madre. Poi, mentre eravamo ancora freschi del funerale di mamma, è morto il padre di Luca Paladini.

Seguo Luca da quando ho cominciato a seguire le attività dei Sentinelli di Milano, prima da Roma e poi da Milano, dove sono tornata quasi subito dopo la loro nascita. Quindi so con chi parlo e con quali idee mi confronto appena sento parlare Luca Paladini.

Non sono sempre d’accordo con lui, va detto, ma di sicuro conosco la sua passione, il suo impegno in qualsiasi iniziativa, la sua innata capacità di cercare sempre e comunque di stare dalla parte di chi ha più bisogno di qualcuno che scenda in piazza per reclamare diritti considerati scontati, come quello a una sanità decente, a quelli per cui è stato necessario farsi davvero un paiolo enorme, come quelli civili per chi è LGBTQ+.

Quando sono uscita da bozzolo in cui ero finita in quei giorni, gli ho detto ‘se posso fare qualcosa, anche costringere i miei amici a votare per te, fammi sapere’.

Mi ha proposto di aiutare i volontari che si stavano preoccupando della sua campagna elettorale.

Perfetto, perché Luca si è candidato nel Patto Civico per Majorino in cui sono confluiti anche i candidati di Possibile. A cui sono iscritta da ormai tre anni. Oltretutto, in qualsiasi modo avrei votato per Majorino. A costo di tapparmi il naso e votare PD, eh. Ma non ce n’è stato bisogno.

La mia avventura di volontaria per una campagna elettorale è cominciata, con i miei tempi, le mie ritrosie e tutte le mie analisi critiche che facevano capolino di continuo messe in standby fino al giorno dopo le elezioni, in questo modo.

In tre settimane ho fatto delle cose che non avrei mai pensato di fare e ho putroppo dovuto saltarne altre.

Durante la campagna ho dovuto moderare la mia opinione su Selvaggia Lucarelli, che non è tra le mie persone preferite ma ha intervistato Luca in modo quasi impeccabile. Escludiamo lo scivolone della domanda ‘non vi siete occupati troppo di diritti civili?’, la grande critica di questi anni, come se davvero diritti civili e diritti sociali potessero essere scissi e come se davvero i diritti civili fossero stati ormai acquisiti in modo capillare in tutte le fasce di popolazione e in tutti i luoghi. Dico sempre che è facile parlare di diritti LGBTQ+ o di politicamente corretto finché sei all’interno della circonvallazione più interna di Milano. Provateci sul 15 partendo da via dei Missaglia e arrivando a Rozzano e ascoltate quello che si dicono tra loro le adolescenti della ridente località limitrofa. Poi parlatemi di troppi diritti civili. Vi aspetto a Ponte Sesto con lo spritz. O con una birra, che fa più abitante dell’hinterland.

Durante la campagna ho conosciuto Alicia Ambrosini, che è una forza della natura, e mi sono ricordata un po’ da dove arriva la mia formazione. Mi sono ricordata che secoli fa passavo il mio tempo in un’aula della Statale a garantire il diritto allo studio ai disabili dell’università, insieme ad altri volontari cosiddetti normodotati, mi sono ricordata che spingevo sedie a rotelle e accompagnavo ragazzi e ragazze ciechi/e a lezione. Mi sono ricordata che Chiara Bernareggi una volta mi chiese di registrarle un libro di testo e mi sono ricordata che questa città nonostante tutti i passi avanti fatti sulle barriere architettoniche ha sempre un sacco di lavoro da fare. E Milano è messa anche bene, figuriamoci altrove come si sta.

Durante la campagna mi sono fatta bullizzare da Civati perché sono romanista, e sono stata clemente, non gli ho ricordato dove è finita la Juve dopo la penalizzazione. Ma lo perdono perché (non ) mi vuole sposare.

Durante la campagna elettorale sono andata dal sindaco e gli ho detto ‘io devo farle un appunto: noi a sinistra siamo stufi da anni di sentir parlare di voto utile. Quello per Majorino è un voto necessario’. Con mio fratello che quando gli ho raccontato questa cosa mi ha chiesto incredulo ‘ma veramente sei andata a dirlo a Sala?’. Sì, ci sono andata. Sono una cittadina che vota in questa città, è il mio sindaco, e per di più sono una volontaria che nel suo piccolo sta facendo quello che può per ribadire che è necessario cambiare la Regione a partire dal presidente, perché 28 anni di governo ininterrotto non hanno a che fare con la democrazia ma sono un tempo sufficiente per creare un dispotismo e immobilizzare qualsiasi idea di cambiamento, in questo caso di miglioramento, perché tutti quanti sappiamo cosa ha provocato l’amministrazione della destra in questi 28 anni in Lombardia. Lo sanno anche i cittadini che non riescono a capire la differenza che passa tra il potere dei Comuni e quello delle Regioni. Mettono tutto nello stesso calderone e non vanno mai a chiedere il conto a chi è diretto responsabile dei disservizi di sanità e trasporto su rotaie. O Aler. E no, miei piccoli lettori, quando qualcuno vi dice che sono responsabilità del sindaco (quale, poi, che in effetti Sala non è che ha potere ovunque, pure sulle linee Trenord che partono da Varese) non dovete guardarlo con aria compassionevole, perché noi lo sappiamo, che cosa significa il Titolo V, ma un sacco di gente non lo sa. E sta a noi spiegarglielo, anche come se avessero 4 anni, se necessario. Perché la destra non ha mai avuto interesse a spiegare le sue mancanze. Alla destra sta bene che le persone abbiano in testa un’enorme confusione tra i ruoli dei Comuni e quelli della Regione e che nessuno abbia capito un tubo delle autonomie regionali. Perché se metti caso la gente capisse che ci sono responsabilità precise non starebbe a casa a incrementare la percentuale degli astenuti alle elezioni. Andrebbe a votare. E non sia mai. L’astensionismo sta bene alla destra.

Durante la campagna ho sentito parlare Claudia Pinelli. E campagna o no sentire parlare Claudia Pinelli ti fa sentire meno sola.

Durante la campagna ho visto la differenza reale tra chi ha interesse al bene dei cittadini e chi del bene dei cittadini se ne infischia. Perché i programmi di chi ha interesse al bene dei cittadini sono tutti programmi che vogliono ritornare a garantire un servizio reale alla cittadinanza, con il tempo che ci vorrà perché sarà un lavoro lungo, di decostruzione prima, e di ricostruzione poi. E siamo in ritardo fotonico, ma da qualche parte si deve cominciare. Per questo dico che è un voto necessario, pure da parte di chi non vuole andarci perché è esausto. Chi non vuole andarci non sta fottendo sé stesso. Se ha perso la speranza è già fottuto. Ma non andando a votare fotte il futuro dei suoi figli e dei suoi nipoti.

Durante la campagna elettorale ho visto un sacco di gente che sa che le possibilità di vincere sono limitate, eppure ci prova comunque perché le elezioni si vincono anche solo per un voto, e soprattutto perché magari la gente ha la memoria corta, pure troppo, e dopo le incazzature degli ultimi due anni ha giustamente ricominciato a vivere. Ma se le ricordi cosa è successo e cosa succede tutti i giorni quando le serve un medico di base, una visita speciaistica, una prestazione con il SSN, un pronto soccorso che non trova un letto per un over 80 in 26 ore, sai, tanto mica è urgente, ‘muore presto’, quando le ricordi cosa è successo l’ultima volta che ha dovuto usare Trenord e il treno era soppresso senza preavviso, o cosa succede nelle case Aler in cui vive sua nonna disabile con la manutenzione inesistente, allora sì che si incazza e si ricorda tutti i motivi per cui ha provato una rabbia che non aveva modo di sfogare. E allora ascolta, e lo capisce anche lei chi sono i responsabili di quella rabbia.

Durante la campagna mi sono sentita, ci ho sentiti, come Davide contro Golia. E a me le imprese impossibili piacciono. Mica c’è gusto a giocare quando si vince di sicuro. Bisogna farlo quando hai tutto contro. E porca miseria. Davide, a Golia, lo ha buttato giù con un sasso in testa.

Noi siamo Davide. Majorino, Paladini, Ambrosini, quelli che volete voi che stanno comuque dalla parte di chi vuole lavorare per il bene dei cittadini, sono il sasso.

Golia che ve lo dico a fare.

Vediamo di buttarlo giù, questo gigante che fa un sacco di danni. Ne va del futuro nostro e di chi è arrivato o arriverà dopo di noi.

Dialoghi tra padre e figlia

Io: “papà, ci pensi che questo era l’anno del cinquantesimo di matrimonio?”

Papà:”e nun ce semo arivati, embè?’

Il giorno dopo.

Papà: “ho trovato una foto da mettere vicino a mamma*. Visto che sarebbero stati 50 anni l’ho presa dall’album del matrimonio”

La foto:

*papà vive al nord dagli anni 60 eppure parla ancora tutto il suo romanesco. Quindi io sono mezzosangue e bilingue. Non trilingue perché il laghée non l’ho mai imparato.

Pensieri spettinati*

*Pubblicato su facebook il giorno 25/01/2023. Da questo momento riporterò sul blog i post di facebook che voglio conservare, per evitare il rischio di blocchi futuri e inaccessibilità dovuta alle idiosincrasie di Meta

Sto rimettendo a posto cose e persone dei giorni scorsi, quando sono andata con il pilota automatico.

Non so ancora bene come prendere questo fatto che la donna che mi ha messa al mondo non c’è più, probabilmente lo capirò nei prossimi tempi, con calma e con molte parole scritte, non tutte date in pasto ai miei 23 lettori.

Di sicuro ho individuato due momenti terribili che non dovrebbero mai capitare a nessuno nella vita ma che temo siano difficili da scansare se si sopravvive ai propri genitori.

Il primo è stato andare da mio padre a dirgli che mamma non c’era più.
In quel momento mi sono sentita piccola, non sola perché c’era qualcuno ad accompagnarmi, ma di sicuro mi sono sentita come se invece di 47 anni ne avessi 5 e contemporaneamente 80 con tutto il peso del mondo addosso.

E per fortuna mio padre è un uomo fatalista che non ha mai pensato che lui o sua moglie sarebbero vissuti per sempre. Ringrazio i geni dalla linea gotica in giù per questa cosa perché un po’ di sana lucidità e una dose di ironia in questi momenti serve, insieme al fatalismo.

L’altro è stato andare, da sola, all’anagrafe per chiedere la dichiarazione sostitutiva di atto notorio per attestare il decesso di mia madre e portare il documento alla banca. È stato il primo momento in cui ero io a dichiarare a qualcuno che mia madre è morta e non il contrario, e a un certo punto non sapevo nemmeno io cosa stavo facendo o dicendo.

Mi sono scusata perché ‘è la prima volta che muore mia madre’ con l’impiegato davanti a me, che non ha infierito. Anzi.

Ma almeno l’atto notorio, miei piccoli lettori, fatelo chiedere a qualcun altro perché vi maciulla le viscere.

I miei genitori il giorno del matrimonio. La foto è molto più rossa di quanto dovrebbe, nonostante gli anni e i colori delle foto degli anni 70 ormai rovinati. Ma sono loro e mio padre ha gli occhi da pesce lesso come li ha sua figlia quando guarda le persone che ama. Sono belli tutti e due ma da brava bambina innamorata del papà vi dirò sempre che il mio papà è bellissimo e sembra un attore. Però non fategli sapere che ho pubblicato una foto sull’internet sennò si incazza.

Le parole che non avrei voluto dirti*

Quando Giammarco mi ha chiesto di scrivere il ricordo di mia madre, “perché tu sai scrivere”, mi è venuta l’espressione del “Ti te set scemo”.

Da quando ero adolescente ho cercato di scappare da mia madre in tutti i modi, facendo tutte le cose che lei non avrebbe mai capito, e arrivando a mettere 600 chilometri di distanza tra noi.

Poi ci ho pensato meglio. E mi sono ricordata che ho parlato spesso di mia madre, direttamente e indirettamente.

Senza nominarla ne parlo quando scelgo i miei personaggi femminili, e sono tutte donne che con la loro madre hanno un rapporto conflittuale, in eterna ricerca di risoluzione nell’arco della storia. Sì chiama arco di trasformazione del personaggio, in sceneggiatura. Il personaggio si evolve e cresce. Matura.

È facile farlo sulla carta. È più difficile farlo nella vita di tutti i giorni perché non puoi barare con le ellissi temporali.
Se hai uno scazzo lo devi affrontare, non puoi cambiare scena.

Nella vita il modo migliore per affrontarlo, a volte, è proprio andarsene e guardare le cose da lontano.

E guardando mia madre da lontano ho fatto pace se non con la madre almeno con la donna che è stata.

Ora, magari chi l’ha vista negli ultimi anni e non l’ha conosciuta tempo fa non può saperlo, ma prima che i dolori articolari si mangiassero la sua lucidità, mia madre è stata una persona attiva mentalmente e fisicamente.

La mamma camminava. Non aveva la patente, come me, quindi era giocoforza uscire di casa a piedi e spostarsi coi mezzi. E ho una memoria molto precisa di lei che ci porta ovunque a piedi. Dai nonni in via Rasori, per esempio. O a tutte le attività sportive che abbiamo praticato da bambini. O in tutte le chiese dei posti dove siamo stati in vacanza, Roma inclusa. Tralasciamo il particolare che Roma non equivale a una vacanza ma a un tour de force, ma è un’altra storia.
Quindi fin da bambina io camminavo perché così faceva mia madre.

Mia madre non è stata solo una madre. È stata prima di tutto una figlia e non ha smesso di esserlo in nessun giorno della sua vita. Lo so perché quando aveva dei dolori molto forti chiamava la nonna, che non c’è più da tanti anni ma evidentemente non se n’è mai andata.
So per certo che le mancava anche il nonno, che manca anche a me, e diciamo che sono piuttosto sicura che adesso sia in un posto dove ci sono entrambi. O meglio. Non ci credo ma ci spero. Lei ci credeva, quindi sarà certamente così.

Mia madre è stata una donna nata in una famiglia che sulla carta non aveva i mezzi per farla studiare e che nonostante questo invece di fare la sarta come avrebbe voluto una certa tradizione, se sei povero vai a fare un lavoro manuale, ha frequentato le scuole, il famoso avviamento voluto dalla Riforma Gentile, ha imparato la stenografia e la dattilografa e a far di conto e ha cercato un lavoro di ufficio.

E lavorare le piaceva. So per certo che se avesse potuto continuare a lavorare sarebbe stata molto più serena. Ma era una donna nata nel 1937 con tutta una serie di barriere mentali e sociali, e quando è diventata madre non sarebbe stato possibile immaginare una tata che si prendesse cura dei suoi figli. O magari per lei non sarebbe stato pensabile . Era difficile chiederle queste cose.

Mia madre è stata una donna molto bella. Lo so perché ci sono le sue fotografie di quando era giovane.
Ed era una donna a cui piacevano le belle cose. Le piaceva l’arte, soprattutto quella figurativa. Non so se avrebbe apprezzato certa arte contemporanea che a me piace molto anche quando non la capisco.

Mia madre non aveva studiato ma leggeva. Negli ultimi anni, quando non si riusciva più a farla uscire di casa per via dei dolori alle gambe, le ho comprato un Kindle, l’ho collegato al mio, e le ho fatto leggere gli stessi libri che leggevo io.
Lo ha fatto.
Nonostante non fosse una persona particolarmente informatizzata mia madre si leggeva i libri di gente che manco sapeva che esistesse o che grande personalità fosse, su questo coso che a volte cambiava pagina o libro senza che se ne rendesse conto.
Ma leggeva. Ci si addormentava sopra. E negli ultimi anni ha letto più di me.

Potrei dire tante altre cose ma alla fine quello che conta è che mia madre è una donna che ha vissuto, ha superato i grandi cambiamenti epocali tra due secoli difficili, ha visto la guerra anche se da bambina, ha visto la ricostruzione e ha visto tutto quello che c’è stato in Italia, a Milano, meglio ancora, in tutto questo tempo.
E alla fine della sua vita si è addormentata sulla sua poltrona e non si è più svegliata.

Ed è la cosa migliore che può capitare a tutti noi.

*il 9 gennaio è mancata mia madre. Mi hanno chiesto di scrivere il mio ricordo per leggerlo durante la funzione. Se non eravate al funerale vi siete risparmiati la mia incontinenza da parola scritta alla fine di una funzione comunque molto bella e dove si respirava molto affetto. Se c’eravate colgo l’occasione per scusarmi delle troppe parole.

Del perché non dovete mai farmi girare vorticosamente le ovaie – parte 1

È un po’ che non ci vediamo e nel frattempo sono stata in altre faccende affaccendata.

Per esempio per la prima volta nella mia vita ho saputo con 4 mesi di anticipo che il mio contratto non sarà rinnovato a fine dicembre, e ho ricominciato, per la N volta, a cercare un lavoro.

Cosa è successo da lì in poi?

Qualcosa di molto banale nella vita dei precari a tempo indeterminato: lettura di annunci, risposte agli annunci con invio di curriculum, scarto dei trattamenti economici peggiori (a proposito, avete notato come negli anninci da almeno un annetto a questa parte le aziende spesso non indicano più né il compenso lordo né il CCNL di riferimento? Segnatevelo, perché è un elemento importante della storia che sto per raccontarvi), attese di ricontatti, il tutto, nel mio caso, mentre facevo il mio lavoro per 8 ore al giorno, 7 il venerdì.

Come succede in questi casi, a volte qualcuno ha risposto all’invio del curriculum, a volte ha inviato una mail predefinita per comunciare che il CV era stato ricevuto e sarebbe stato valutato, spesso il CV è stato scartato senza che ci fossse un riscontro da parte dell’azienda, più raramente l’invio ha ottenuto un riscontro e un colloquio. C’è stato anche il momento antipatico della selezionatrice che voleva disponibilità per un colloquio on line per l’ora successiva a quella in cui mi stava telefonando, e davanti al mio ‘mi perdoni ma sono al lavoro e non posso chiedere un permesso in questo momento’ si è persino risentita perché avevo mandato il curriculum solo il giorno prima e mi ha ricontattata subito. Ovviamente l’azienda è stata depennata dalle future ricerche.

Il peggio però doveva ancora arrivare. Tutti parlano di come noi disocccupati o precari siamo sempre disposti a rifiutare un lavoro perché pretendiamo troppo. Quindi, stronzi noi, preferiamo tenerci o la disoccupazione o il RDC. Ad averlo. Io non ce l’ho e sono ancora occupata in un posto dove prendo 1609 euro lordi al mese, buoni pasto, tredicesima e quattordicesima e quest’anno mi hanno pure dato un’assistenza sanitaria nonostante sia a tempo determinato e un sostanzioso buono da usare in tutte le Coop d’Italia per fare la spesa o quel che mi serve (alcol. Tendenzialmente lo spenderò in alcol. Alcol di qualità ma alcol. Lo dico per il mio capo che a volte mi legge. Il buono è in buone mani. D’altronde c’è un’intera letteratura inglese che parla del deboscio della classe lavoratrice inglese, pronta a darsi ai vizi non appena non è più produttiva per la società. Dickens docet).

Insomma ho fatto un paio di conti anche sull’importo della disoccupazione che mi daranno per sei mesi e so esattamente sotto quale cifra non deve andare il mio compenso loro mensile per rendere appetibile un posto di lavoro in un call center dove si fa prettamente assistenza clienti o back office, per esempio.

Ecco, confesso che dopo un anno in un ambiente in un certo senso protetto, dove non devi fare le corse al PC per poterti accaparrare una postazione ma ho invece avuto un mio ufficio e dei cassetti, che negli ultimi due mesi sono addirittura moltiplicati perché ho avuto un’intera cassettiera, e dove comunque l’assistenza data ai nostri soci è completa, non si ferma a un primo livello per continuare nelle mani di chissà chi e ciao, l’idea di rinchiudermi di nuovo in un call center con open space incasinati e senza la minima possibilità di avere lo stesso collega alla postazione di fianco per due giorni consecutivi, soprattutto con turni comunicati da una settimana all’altra, mi sta un po’ facendo venire le bolle.

Quindi ho pensato seriamente a una strategia di uscita per rendere un eventuale periodo di lavoro in call center l’ultimo e poi cominciare a fare seriamente la tata e aprire la mia associazione culturale per poter fare la guida turistica, roba che non porta soldi ma piace tanto ai giovani.

Il ritornello degli ultimi tempi è ‘se devo morire povera, almeno voglio farlo alle mie condizioni’.

Per inciso ho un altro romanzo da finire e sono indietro con la pubblicazione su Partreon.

Quindi ho cercato solo posti di un certo tipo e con un certo compenso.

La scorsa settimana sembrava che la mia ricerca fosse terminata, sempre a tempo determinato.

Mi è stato proposto un contratto per sei mesi, all’apparenza un sesto livello del commercio, quindi con uno stipendio un po’ inferiore rispetto a quello dell’ultimo anno.

Però all’apparenza mi sembrava un posto decente, dove non sarei stata ore e ore al telefono, con la formazione inclusa nel contratto e con un team di persone ristretto. Soprattutto con orari diurni fissi, al massimo con uno scarto di mezz’ora. Anziché 8:30 alle 9:00. Zona Loreto anziché in culo ai lupi come succede solitamente con i call center.

Mi era piaciuto nonostante il trattamento economico, ero pronta a firmare. Avevo solo un tarlo. Quel sesto livello del commercio. Perché era un netto di 1100 euro pià 90 di bonus, ma non riuscivo a trovare nessun corrispettivo in nessun CCNL del commercio. Il VI livello del commercio, per dire, ha una paga base di 1400 euro lordi, e spicci.

La buona fede è comunque rimasta fino all’arrivo del contratto:

Non vi descrivo nemmeno la mia faccia nello scoprire che il contratto non è Commercio ma Distribuzione e servizi per le aziende. Il contratto più schifoso che esiste tra i nostri CCNL di categoria, peraltro con il livello previsto per chi fa facchinaggio. Niente da dire contro chi fa facchinaggio, ma vogliamo ammettere che le competenze di chi sta davanti a un PC e risponde alle richieste di assistenza dei clienti al telefono o per mail sono presumibilmente diverse e implicano un maggior dispendio di ore di studio nonché di conseguimento di titoli? Bassi, per carità, può farlo chiunque sia uscito da una scuola superiore, un lavoro del genere. Deve avere una proprietà di linguaggio, l’attenzione alle richieste del cliente, la capacità di rielaborare, la capacità di rispondere in maniera esaustiva e una buona dose di pazienza perché il pubblico non è esattamente la simpatia fatta persona. Con delle squisite eccezioni, va detto. Ma mediamente chi si rivolge all’assistenza clienti è innescato per cacare il cazzo e tocca disinnescarlo.

Non contenti di questo contratto che non rispecchiava per nulla quello prospettatomi in due colloqui, non uno, due (a casa mia ‘equiparato al sesto livello del commercio’ non significa sesto livello di distribuzione e servizi alle aziende, ma ho forse poca fantasia perché avrei dovuto arrivarci da sola), mi hanno aggiungo un corposo documento in cui è stata messa nero su bianco una regola che riguarda i contratti a tempo determinato (non i contratti in somministrazione, miei piccoli amici, quelli sono regolati dal CCNL delle Agenzie per il Lavoro, e c’è differenza, continuate a leggermi perché forse un giorno tirerò fuori la mia anima da giuslavorista mancata e ve la spiegherò come se aveste 4 anni, anche 3 se nella vita siete stati solo portatori sani di partita IVA, perché capirlo diventa più difficile) ma di cui nessuno fa mai parola durante il prospetto dei diritti legati ai contratti di lavoro subordinato:

Credo che questa clausola non abbia bisogno di nessun commento. A parte che non è un obbligo applicarla, e in effetti ho sentoto della sua applicazione una sola volta, a una mia amica che si è fatta sempre un discreto paiolo per lavorare, visto che non è nopote di Berlusconi e nemmeno di Mubarak, e che lo scorso anno ha dovuto dimettersi anzitempo per disperazione. Ecco, le hanno trattenuto l’ultimo stipendio in virtù di questo contratto. Ma a pensarci bene, ho un vago ricordo di un ultimo stipendio mio mai erogato dalla società Autogrill, per cui nel 2003 ho lavorato presso l’Autogrill Roma Corso (presente dove stava Aragno? Ecco) e a cui ho rassegnato le dimissioni anzitempo perché ho preso una broncopolmonite che mi ha resa inabile ai lavori troppo pesanto. Sì, servire ai tavoli e fare le pulizie dove mangia la gente è un lavoro pesante, soprattutto nell’estate più calda del secolo e se pulisci i tavoli sotto l’aria condizionata a 18 gradi quando sei già sudata all’ingresso nel locale perché fuori ce ne sono 40. Ma ehi. Se mi ero ammalata è perché sono io fragile, mica era colpa dell’azienda (il voctim blaming si manifesta in molte forme).

Dopo la ricezione della documentazione di cui sopra, è scaturita una riflessione che potrei riassumere in un COL CAZZO CHE LAVORO PER VOI.

Poiché non sarebbe stata buona creanza esprimermi in questo modo, ho inviato una mail pacata. Questa:

Si sarebbe potuto chiudere qui il discorso, con un arrivederci e grazie.

Ma.

Ho risposto in copia a tutti gli indirizzi che mi hanno inviato la documentazione.

Inclusa la responsabile della selezione del personale che per prima mi ha contattata.

Questo è lo scambio successivo, in cui, ammetto, non ho ecceduto perché sotto sotto sono ancora una signora. Ma la tentazione di bestemmiare fortissimo si è presentata più volte.

La mia risposta, dove non mi sono trattenuta ma sono sempre stata educata:

Chiamasi ‘toccarla piano’.

Secondo voi è finita qui? Nemmeno per sogno. Perché dopo questa mia risposta è arrivato un ennesimo motivo per convincermi di aver fatto la scelta giusta. Nonostante il tentativo di farmi sentire dalla parte del torto perché sono io che non comprendo, loro sono onesti, fanno una porcata ma lo esplicitano, vogliamo mettere con quelli che fanno la porcata ma non te lo dicono onestamente?

L’ultima mail ricevuta da me, solo perché continuare a parlare di etica e di malafede sarebbe stato tempo sprecato, con gente convinta che ti sta offrendo una grande opportunità e sei tu che non la vuoi prendere in considerazione:

Vi faccio notare che la trasparenza comparsa nella mail ha fatto sì che nessuno mi dicesse che tredicesima e quattordicesima sarebbero servite ad arrivare ai 1200 euro netti mensili prospettati.

Ora, io non pretendo di essere un’esperta grandissima di CCNL e di accordi sindacali, ma riconosco una porcata e lo sfruttamento, pure quando è legalizzato.

Quindi la legge potrà anche essere a favore di questa gente, e lo è, perché non mi hanno proposto nulla che non sia ampiamente previsto e codificato.

Non significa che una cosa legale sia per forza una buona cosa, e non significa nemmeno che un’azienda, visto che la legge le consente di applicare un livello che garantisce ai lavoratori uno stipendio che sta sotto la sussistenza, sia obbligata a farlo.

I minimi sono solo quelli sotto cui non si deve scendere. Se si vuole, si può decidere di pagare di più. Anche per evitare un fuggi fuggi di personale che non riesce a mantenersi economicamente.

Se non si vuole farlo, è una precisa scelta imprenditoriale.

E una precisa impronta che si vuole dare alla concezione del lavoro dipendente. Il dipendente è uno schiavo e buona grazia che gli concediamo dei diritti.

Non è questo il posto del mondo dove vorrei passare sei mesi della mia vita.

Ci sono posti migliori. Persino meglio pagati.

(poiché sono per ovvi motivi ancora disoccupata, preparatevi ad altri aggiornamenti sul favoloso mondo del lavoro italiano. Naturalmente è una favola nera. Dobbiamo ancora capire se c’è spazio per un lieto fine)