Degli anniversari e di altri demoni

Nove anni fa, più o meno in questi giorni, scrivevo questo post.

Avevano appena chiuso Friendfeed (se non sapete cosa fosse mi dispiace moltissimo per voi perché vuol dire che non lo avete vissuto e a mio parere avete perso qualcosa di bello che non è facilmente spiegabile a chi non c’era) e stava cominciando la diaspora di noi friendfeeders, o fifini, che ormai siamo diventati fufini (fufini perché fifi, che era l’acronimo nato dal FF logo della piattaforma, è stato trasformato in fufi, il fu funge da passato remoto, e in effetti quelli che eravamo allora sono diventati tutti fu, e non sempre è un male. A volte sì, ma quella roba è triste e ne parleremo altrove, se non ne abbiamo già parlato).

Ci aggiravamo tristi per la rete cercando un posto dove migrare, sembra un po’ una cosa biblica, tipo la fuga d’Egitto del popolo di Israele alla ricerca di una terra promessa. Vi svelo subito il finale: la terra promessa non esisteva. Quindi a un certo punto ci siamo fermati dove stavamo meno stretti.

Siamo andati avanti così, per qualche tempo, e intanto passavano gli anni, e in questi anni qualcuno interagiva ancora on line, qualcuno si incontrava, qualcuno non solo si incontrava ma cementava amicizie, facevamo ogni anno un raduno di amici immaginari (perché ci chiamiamo così, tra persone che si sono conosciute lì, io almeno li chiamo ancora gli amici immaginari, è meno complicato che spiegare dove e come ho conosciuto la maggior parte delle persone con cui ho discusso, riso, pianto, litigato in 13 anni della mia esistenza).

E poi a me è successo qualcosa.

Mentre il tempo passava e si trascorreva il tempo a celebrare un luogo on line che non esisteva più, io andavo avanti, e le mie amicizie di vecchia data si confondevano con quelle incontrate on line, si fondevano con quelle nuove, e non aveva più importanza il dove ci si era conosciuti, il perché, e il come soprattutto.

In questi 9 anni di assenza del socialino ho conosciuto molte delle persone dietro ai nick, e ho scoperto mondi che non avrei mai potuto conoscere altrimenti.

Ho trovato lavori. Ho fatto la babysitter ai bambini di quegli amici immaginari. Sono stata a un funerale e altri ne ho mancati, sempre di quegli amici.

Ho scoperto il femminismo. Ho pubblicato un romanzo grazie anche a quegli amici.

E soprattutto mi sono accorta che nonostante friendfeed non esista più come luogo è rimasto uno spirito della sua comunità, che si presenta nei momenti peggiori.

Da quelle persone conosciute on line, che a volte ho frequentato e a volte no, sono usciti gesti che somigliano alla solidarietà tipica delle comunità di un tempo.

In questi giorni è successo di nuovo, e la cosa straordinaria è che appena si chiede aiuto l’aiuto arriva, come se non fossero mai passati 9 anni, come se il fatto che non esista più il luogo fisico dove ci incontravamo a tutte le ore del giorno e per qualcuno della notte (non per me che vado a dormire con le galline) in fondo non sia rilevante, perché lo spirito del friendfeed non è mai stato spento.

Quindi per la prima volta in nove anni io non mi sono commossa leggendo i post nostalgici di chi faceva parte di quella comunità.

So perfettamente che friendfeed non è morto, ma è solo cresciuto, perché friendfeed era fatto di persone che si sono incontrate in un certo momento della loro vita, si sono piaciute e per qualche strana ragione continuano a piacersi ancora adesso, anche se non hanno più una casa e non si leggono più tutti i giorni.

Sapete quando i bruchi diventano farfalle? Ecco.

(ed ecco perché ho smesso di commuovermi intorno al 9 aprile, ma sono contenta di essere diventata grande anche grazie a un sacco di quelle persone da cui ho imparato che il modo migliore di crescere è sempre avere intorno persone migliori di te, per cultura, per indole e per qualsiasi cosa che mi venga in mente. Altrimenti resti per strada, e nessuno dovrebbe restare per strada)

Qualcosa è cambiato

Quanti mesi sono passati? Due? Tre?

Non me lo ricordo nemmeno. Ma una cosa è certa: per molto tempo non ho avuto voglia di scrivere.

Ancora adesso faccio fatica a mettermi davanti a una pagina bianca e dare il via al flusso di parole. Ogni tanto ho il dubbio di aver dimenticato come si fa.

D’altra parte è stato un periodo faticoso, in cui il tempo è stato allo stesso tempo veloce e lento. Succedevano cose, private, tante, che non avevo voglia di raccontare in pubblico. E a un certo punto le cose hanno smesso di succedere.

Mi sono ritrovata in un limbo in cui non solo i giorni erano tutti uguali, ma non c’erano spiragli di cambiamento.

In più mai come negli ultimi 15 mesi mi sono ritrovata acciacchi fisici mai ipotizzati prima. Ho una tendinopatia al piede sinistro e una probabile tendinite alla spalla destra, sto ancora facendo accertamenti.

Ho scoperto mio malgrado che quando ti fa male un piede o senti dolore alla spalla non senti il bisogno impellente di uscire di casa, camminare, fare cose e vedere gente. Perché a un certo punto potresti non sapere come tornare a casa.

Quindi, non avendo un lavoro e non avendo impegni inderogabili, sono stata a casa. Molto spesso. Troppo spesso, in effetti.

Nel frattempo cosa ho fatto? Niente, per me.

Invece ho fatto un corso per operatori CAF, ho cambiato due lavori, ho fatto la babysitter random, ho lavorato a maglia, tanto, ho cercato lavoro di continuo, ho fatto qualche colloquio, a un certo punto ho dovuto preoccuparmi di papà che è finito all’ospedale con una broncopolmonite, ho rifatto un altro corso per operatori CAF, ho continuato a fare la babysitter random, ho avuto un coinquilino per tre mesi, ho continuato a fare colloqui, e a un certo punto ho deciso che non era il caso di continuare a stare chiusa in casa. Anche perché la tendinopatia al piede è un po’ passata. La tendinite alla spalla destra è ancora lì ma stranamente è meno fastidiosa. Devo solo capire come togliere le magliette ma è un dettaglio.

Quindi da qualche giorno non solo esco, faccio cose, vedo ancora poca gente ma ci sto lavorando.

Ho deciso di avviare due progetti a cui stavo pensando da parecchio tempo. Sono lenta, quando devo iniziare qualcosa di nuovo. Poi quando comincio faccio tutto insieme.

Il primo progetto riguarda la mia quantità ignobile di sciarpe finite che non indosserò mai nemmeno in dieci vite.

Diciamo che è un progetto chiamato, un giorno scherzando ho chiesto se qualcun* fosse disposto a pagarmi per le mie sciarpe, e senza scherzare c’è gente che mi ha detto di sì.

Quindi ho ripristinato il mio profilo su Patreon, quello dove stavo pubblicando il mio romanzo a puntate, e ho deciso di mettere a disposizione le mie sciarpe a chi si abbona.

Non mi aspetto di trovare un numero enorme di sostenitori, ma nel mio piccolo al momento attuale ci sono 5 persone che inspiegabilmente mi pagano ogni mese e che avranno una sciarpa, o due, dipende dall’abbonamento sottoscritto, a fine anno.

Se vi interessa sapere come si sviluppa il progetto, qui c’è il primo post della nuova era del mio Patreon.

Ma ho parlato di due progetti.

Il secondo è un progetto di scrittura che non riguarda l’Ufficio Reclami, o meglio, che ho deciso di spostare in blocco su una piattaforma diversa.

In parole povere: ieri ho deciso di dare il via a una newsletter, che non sarà periodica ma a casaccio come nella mia migliore tradizione, ma che idealmente vorrei pubblicare ogni mercoledì. Ci riuscirò? Lo scopriremo solo vivendo.

Sarà una newsletter sul precariato.

NOOOOO! CHE PALLE! ANCORA PRECARIATO!

Ebbene sì, se c’è una cosa in cui mi sono specializzata negli ultimi 20 anni e passa è il precariato. Tutti si riempiono la bocca parlando di precari, di lavori che non bastano per campare, di salari, di sfruttamento, e insomma, io questa roba la vivo dal di dentro da anni. Sono una di quelle persone di cui tutti parlano ma di cui non sanno niente.

Mi sembra giunto il momento di raccontare cosa succede davvero nella vita di una persona che da quando è entrata nel mercato del lavoro non ha mai visto lo straccio di un contratto a tempo indeterminato e nonostante questo è ancora qui a raccontarlo e non sta ancora ingrossando le file del Pane Quotidiano. Anche se passa il tempo a chiedersi quando succederà.

Ieri è uscita la prima newsletter, in cui presento più o meno quello di cui vorrei parlare con il mio modo sempre un po’ raffazzonato di mettere insieme concetti.

Se vi interessa leggerla, qui c’è il link.

E insomma, alla fine sono sorpresa anche io. Mi sembrava di non avere combinato molto in questi mesi e in realtà sono successe un sacco di cose.

Che fate? Ci vediamo anche su Patreon e su Substack?

Vi aspetto.

Ultime notizie dalla famiglia

Dice “quale famiglia?”, che qui ci sono solo pinguini, un cane, un corvo, il gatto il topo l’elefante… Ah, no. Era un’altra cosa.

Comunque. Sono ancora viva. Scrivo poco, in effetti ho passato poco tempo pure sui social perché quello dove scrivevo di più, il solito facebook dove mi bloccano il profilo una settimana sì e l’altra no, anzi magari ci provano poi dopo un’ora mi sbloccano perché ‘ci siamo sbagliati’, da qualche tempo ha cominciato a non mostrare in home i post con alcune parole chiave, tipo Gaza, Palestina e genocidio.

Ora. Non credo di aver bisogno di precisare che non sono antisemita. A parte che se fossi antisemita mi dovrebbero stare sul cazzo ebrei e palestinesi, visto che sono popolazioni semite entrambe. A parte. Signora mia, l’uso delle parole ad mentula canis sarà la prima causa di distruzione della nostra civiltà.

Ma a parte questo, io sono convinta che in questo momento in Palestina sia in corso un genocidio. Non ho altre parole per definire il tentativo di eliminazione della popolazione della striscia di Gaza perpetrato dal governo israeliano, se ne avete un’altra indicatemela, ma così a occhio come è stato un genocidio quello perpetrato nel Kosovo anni fa lo è anche quello a Gaza. Perché essere ebrei non ti rende immune alla possibilità di essere stronzi come esseri umani. Nessuno è immune da quella roba che ti porta a smettere di considerare una popolazione come sacrificabile e cancellabile, e no, il fatto che esista Hamas e che il 7 ottobre ci sia stato un attentato con 1200 vittime israeliane non giustifica una ritorsione in cui al 21 gennaio, ultimo dato che ho trovato, si contavano più di 25000 morti, il 70% donne e bambini secondo una stima non di Hamas ma dell’ONU, provate a dire che l’ONU è antisemita se ci riuscite.

L’ho detto? L’ho detto.

Non ne parlo molto, specie in pubblico, perché appena si parla del conflitto ci si ritrova nemici di una o dell’altra parte. E diciamo che arrivata a 48 anni quasi 49 comincia a stufarmi il giochino dell’amico del mio amico che è il mio nemico, ho le mie opinioni precise sul conflitto e sulla questione palestinese, non le ho mai nascoste, penso che il problema sia legato soprattutto a Israele e al bisogno dell’Occidente di avere uno stato di Israele in uno dei luoghi più caldi del mondo, e non ho cominciato a pensarlo dopo il 7 ottobre come sapevo prima e so adesso che Hamas è un gruppo terroristico, quindi non mi piace, Hamas.

Però mi piacciono gli esseri umani e ci sono degli esseri umani che vivono in Israele e in Palestina, e penso che a un certo punto esista una sola risposta. Si chiama due stati. Lo penso da anni, pure se ho le mie convinzioni, perché c’è questa cosa fantastica dell’essere persone con delle idee. Si può pensare che esistano delle responsabilità e contemporaneamente pensare che continuare una guerra per decenni, una guerra dove esiste una parte più fragile, più indifesa e più in balìa dell’esercito israeliano e di Hamas (che non è la panacea dei mali palestinesi, è semmai un effetto collaterale portato da ottant’anni quasi di questione palestinese, una roba che i governi israeliani che si sono succeduti si sono cercati con una precisione chirurgica) a un certo punto non porta più da nessuna parte.

Solo che io sono in Italia, in Occidente, e chissà perché da questa posizione ultimamente bisogna dire che ha ragione Israele, senza se e senza ma, altrimenti ci prendono per brutti e cattivi antisemiti (ancora? NONE), sennò arrivano a bacchettarti perché se non sei pro Israele allora sei pro Hamas e perché non prendi posizione e tutte le cazzate che hanno portato un sacco di gente a perdere la voglia di esprimersi in pubblico. Tanto come ti esprimi sbagli.

In effetti la ragione per cui ho perso la voglia di scrivere come la penso su molte delle questioni rilevanti su cui bisognerebbe per forza avere un’opinione è l’impossibilità di non schierarsi acriticamente.

Una volta si poteva discutere anche con toni accesi stando su posizioni opposte. Poi si smetteva di discutere e si andava a bere il caffé. Tipo il bar della scuola dove Nietsche e Marx si davano la mano e parlavano insieme dell’ultima festa e del vestito buono, nuovo, fatto apposta, e mannaggiammé ho citato pure Venditti e adesso mi attirerò i Gruppi Armati AntiVenditti che ci tengono a dire che loro no, non lo hanno mai ascoltato. E io sì, e pazienza (vi tolgo subito il dubbio, ho ascoltato anche i Pooh, Ramazzotti, Luca Barbarossa, canto Claudio Baglioni, conosco buona parte del repertorio di Toto Cutugno, pace all’anima sua, come conosco De Gregori, Guccini, De André, EELST, i Beatles, David Bowie, gli Wham, i Beach Boys, e pure Mozart, oddio conosco pure Mozart. Posso peggiorare, ma anche migliorare)

Adesso no. Adesso un* su un qualsiasi social prende una posizione opposta alla mia e devo per forza dire che è mi* acerrim* nemic*, e se non lo faccio sono complice. Non si sa di che.

Sto esagerando? A me non sembra. Scorrendo i post degli anni precedenti su facebook mi rendo conto che questa cosa è iniziata lontano, probabilmente all’inizio era stata sotterranea, limitata a cose serie su cui è impossibile discutere, tipo l’essere antifascista o antirazzista. O antiomofob*.

Poi è successo qualcosa. Non era possibile dire che un libro che piaceva a tutt* a noi non diceva niente, non era possibile dire che un hamburger vegetariano può essere un hamburger perché cosa lo chiami a fare hamburger se non c’è la carne (insomma, ham sarebbe prosciutto, ma capiamoci, a noi onnivori cosa cazzo ci frega se un* vegetarian* vuole chiamare hamburger qualcosa che per definizione non contiene prosciutto? Saranno mica fatti suoi? Poi diciamolo, certi hamburger vegetariani e persino vegani sono buoni, qualsiasi nome portino, come certi hamburger di carne fatti male sembrano suole di scarpe riscaldate).

Poi c’è stato il Covid e abbiamo visto cosa è diventata la comunicazione, come l’etichetta di Novax data a cazzo di cane, e non mi soffermo oltre.

Poi c’è stata la Russia che ha invaso l’Ucraina e già lì chi parlava di pace era il nemico pubblico numero uno insieme a Putin.

Adesso siamo a Israele e Palestina. Non so quale sarà il prossimo grande argomento che creerà una dicotomia.

Però è un gioco che mi interessa poco. Ho le mie opinioni, e sono stufa di doverle giustificare ogni volta che le esprimo su un social network. Oltretutto spesso dovrei esprimermi su questioni di cui non so abbastanza.

Anche basta, a un certo punto. Quindi mi fermo, ho parlato abbastanza.

(il bello è che volevo parlare di tutt’altro, ma tant’è. Sarà una buona scusa per scrivere un altro post, senza aspettare due mesi, stavolta)

Ancora tu. Ma non dovevamo vederci più?

In realtà no, non avevo promesso di non farmi più vedere, ma è un po’ che non scrivo e Battisti in queste occasioni viene abbastanza in aiuto. Sì, ascolto Battisti, sono abbastanza sicura di conoscere parecchie delle sue canzoni a memoria, volete sentire la mia interpretazione di Pensieri e parole? Bene perché tanto non ve la canterei, almeno da sobria.

E in effetti dallo scorso anno è difficile che beva troppo. Il 2023 è stato un anno complicato, come sanno più o meno tutti i miei 23 lettori.

Cominciato male, ha rischiato di finire peggio. Invece ci siamo salvati in corner. Oggi vi perseguiteranno tutte le citazioni della mia esistenza, vedo se riesco a infilarci anche una zona Cesarini, che sta sempre bene.

Allora, dicevamo del 2023, che mi ha stufata così tanto da togliermi la voglia di tirare le somme e fare propositi per il 2024, ché tanto i propositi vengono disattesi il giorno 1 più o meno quando ti rendi conto di esserti persa la Marcia di Radetzky al Concerto di Capodanno di Vienna (l’unico concerto che omologa l’anno nuovo nell’economia scarsa della mia vita. La Fenice potete tenervela voi)

Il 2023 ha rotto così tanto le scatole che mi sono quasi dimenticata di mandarlo a fanculo quando è terminato, ed è un po’ il motivo per cui non ho fatto auguri di buon anno quasi a nessuno. Non sono ancora così convinta che sia finito, lo scoprirò probabilmente il giorno della dichiarazione dei redditi. A quel punto non potrò più nascondermi dietro la sensazione che sia ancora un interminabile dicembre 2023.

Però.

C’è un però, ci sono sempre però, a volte in effetti non ce ne sono abbastanza, dovrebbero proliferare, i però.

Nel 2023 ho scoperto, male, eh, molto male, delle cose che non sapevo.

Di qualcuna avrei fatto a meno volentieri. Per esempio. Ho scoperto cosa significa diventare adulti.

Fino allo scorso anno ho pensato che diventare adulti avesse a che fare con l’andarsene a vivere da soli fuori casa, avendo un’idea chiara di quelle che sono le incombenze delle persone adulte: pagare un affitto, o un mutuo (quello è un po’ un’utopia), le bollette, il cibo, il dentista se ti si rompe un dente, gli occhiali nuovi, fissare la tua prima mammografia perché sai, la prevenzione, e ovviamente trovare un lavoro che permette di fare tutte queste cose (la mammografia il SSR te la passa gratis solo dai 46 anni in poi, se vuoi farla prima la paghi).

E invece mi ero sbagliata.

Diventare adulti significa seppellire, o far cremare, uno dei propri genitori e rimanere abbastanza lucidi da non rintanarsi in camera sotto le coperte subito dopo e per i mesi seguenti, perché quando succede questa cosa vieni investito da una caterva di cose a cui non avevi mai pensato prima. Perché ci pensava proprio quel genitore.

E insomma dopo un anno posso dire che non è stato facile, che ho fatto di tutto, sul serio, per non pensarci, a questa cosa, e che quando poi mi sono fermata a pensarci mi ha investita e mi sono lasciata investire, perché era arrivato il momento di sedersi, immergersi completamente in questa cosa che prevede che la donna che mi ha messo al mondo non sia più presente, imparare a trattenere il fiato e poi ritornare con la testa fuori dall’acqua a respirare quando non è stato più possibile continuare a stare sott’acqua.

Non lo so, se ci sono riuscita.

So che un giorno mi sono svegliata alle 4 del mattino, ho cominciato a piangere e non ho smesso fino alle 10 e ho chiamato tutte le persone che potevo chiamare (era fine agosto, avevo una scelta limitata).

Mi sono presa il tempo che mi serviva, ne ho approfittato per fare un po’ di onde d’urto perché siccome il 2023 è stato un anno di merda (ve lo avevo già accennato, giusto?) ho anche scoperto di avere una tendinopatia, ho ripristinato l’uso del piede sinistro senza preoccuparmi troppo di cercare un altro lavoro perché ero coperta dalla disoccupazione, 2023, merda, eccetera eccetera eccetera, e alla fine ho deciso di ricominciare dove avevo interrotto più o meno a marzo.

Ossia da un corso di formazione che non ho continuato perché in quel momento mi serviva un lavoro pagato.

A conti fatti è stata la decisione migliore che potessi prendere in quel momento. Non so se sia stata la migliore decisione possibile, ma alla fine non sono qui a riscrivere Sliding Doors. O magari sì, un giorno lo scrivo.

A proposito di scrittura, ovviamente non ho scritto quasi nulla. Il mio secondo romanzo sta ancora aspettando la fine. Perché la testa non c’era, e sto un po’ facendo fatica a trovarla.

Però è successa una cosa bella con il primo. Ho avuto l’ebbrezza della mia prima presentazione dal vivo, in una biblioteca. Per essere precisi, quella di Casarile. Dove ho trovato dei lettori che hanno letto il mio romanzo e non sono i miei soliti 23. E dove mi sono trovata davanti persone che mi facevano domande e per qualche motivo a me ignoto erano interessate a quello che avevo da dire. Dice ‘eh, certo’. Eh mica tanto, perché è una vita che quando parlo non capisco mai se la gente che mi ascolta è interessata a quello che dico o se si mette le palline da ping pong negli occhi per fingere di essere sveglia mentre in realtà sta dormendo. La mia autostima o l’assenza della suddetta è stato un lavoro lasciato incompiuto con la mia analista.

E insomma, questa faccenda, la gente che è interessata a quello che ho da dire, è tra le cose che ho imparato nel 2023.

Adesso cosa succede? Succede che dopo aver passato del tempo a raccogliere cocci ora aspetto di cominciare un corso, appunto, e a volte mi sento proporre lavori che rifiuto perché so già che non basterebbero per mantenermi o sarebbero un ripiego da cui in due giorni cercherei di scappare. E sapete una cosa? Sono troppo vecchia per queste stronzate.

La verità è che in questo momento non sto ancora morendo di fame, ho messo via abbastanza soldi per cercare di fare qualcosa a lungo termine senza farmi prendere dall’ansia eterna, e sto per cominciarlo.

Nel frattempo quando mi chiedono di fare la babysitter, o di fare lavoretti saltuari, li faccio, perché i soldi servono sempre. Non serve essere sempre sfruttati, serve lavorare in modo tranquillo. Poi io sono a basso mantenimento (quella ad alto mantenimento ma convinta del contrario era Meg Ryan, non le somiglio nemmeno nell’unghia del mignolo destro). Mi servono i soldi per l’affitto e le bollette, per il resto attingo ai risparmi, per qualche mese.

Unica eccezione: le sciarpe. Perché quest’anno ne ho fatte un sacco e ne sto facendo ancora. E ci sono persone che me le vogliono addirittura pagare. Ora, non so bene come prendere questa cosa, in effetti ho probabilmente sbagliato tutto. Dovevo fare sciarpe.

Insomma è un anno in cui voglio i miei tempi ma ho un sacco di cose da fare.

La grande domanda è: come arriverò al 31 dicembre?

Boh. Per il momento mi basta arrivare a fine gennaio sulle mie gambe.

A proposito.

Sono ancora per gli auguri? Mi pare di sì.

E a proposito, visto che avevamo cominciato con le citazioni. Sarà finalmente l’anno in cui i preti potranno sposarsi?

Fammi citofonare a Papa Francesco per vedere che ne pensa, via.

Pillole di facebook del 2 novembre*

*il post è del 2/11/23

Oggi sarebbe il giorno dei morti.


Sarebbe perché ormai da anni sono abituata a non pensare a un giorno dei morti. Ho la mia mensola dei morti mentale, un po’ come gli antichi romani avevano in casa i lari, e me la spolvero spesso, non solo il 2 novembre.


Quest’anno poi è stato il giorno dei morti tutti i giorni più o meno dal 9 gennaio.


Era il giorno dei morti anche il 10 gennaio, quando dopo essere stata insieme a mio fratello da quello che è stato soprannominato il nostro cassamortaro (un giorno racconterò anche questa storia, perché ci in tutta la gestione delle pratiche post mortem di mia madre ci sono state punte di umorismo involontario non indifferenti), aver accompagnato mio fratello a cercare una camicia per il funerale e averlo salutato perché doveva tornare di corsa a decidere i canti per la messa, camminavo da sola per via Vespri Siciliani e mi sono trovata davanti un negozio di filati, gomitoli, come preferite chiamarli, che un tempo stava vicino a casa dei miei in Barona.


Ci sono entrata e ho cominciato a guardare tutti i gomitoli, uno per uno, senza sapere bene cosa fare o cosa pensare.


Poi ho visto due matasse di lana bella, colorata coi colori autunno.


Lana merino. Mi sono immaginata la sciarpa.


La signora che vendeva i gomitoli mi ha chiesto qualcosa e io senza nemmeno pensarci ho detto ‘ieri è morta la mia mamma e io devo fare una sciarpa’.


Devo aver lasciato la signora basita, perché aveva una faccia strana, ma io mi sentivo come Clara, la sorella di Benjamin Malaussène che quando vede un morto è così sconvolta che gli deve fare una foto. Io non dovevi scattare una foto, dovevo fare una sciarpa.


Così sono uscita da lì con due matasse, e per mesi non ho fatto la sciarpa perché non era il momento.


La lana non scade, ti aspetta, paziente, e quando è il momento la trovi lì nella sua cesta.


Quindi ieri è arrivato il momento e ho cominciato a fare una sciarpa diversa da quelle che faccio di solito. È dritta, perché volevo provare a tornare alle origini, quando la nonna mi insegnava a lavorare a maglia e sbagliavi a contare le maglie. Insomma è una sciarpa di famiglia.


Quindi oggi che è il due novembre io sono qui che faccio la sciarpa di mamma.
Perché è adesso che la devo fare.

Michela Murgia un po’ afosa, non ventilata

Quando a maggio il mondo, di cui faccio parte incidentalmente anche io, ha saputo che a Michela Murgia mancavano pochi mesi a causa di un carcinoma ai reni al quarto stadio, ho deliberatamente evitato l’argomento. Per essere precisi ho provato a farlo, ma in una chat di amiche lettrici mi è arrivata una domanda sulle posizioni di Michela circa Hamas, e ho deciso che non avrei più discusso le posizioni di Michela su nessuna questione a meno di non essere a tu per tu con il mio interlocutore.

Non ero in una chat di persone ostili, anzi. Ma ho capito di non essere in grado di affrontare nessun argomento che toccasse le opinioni di Michela su nessun argomento su cui si era ampiamente espressa in passato, almeno non in quel momento.

Non è difficile capire perché. Ho conosciuto Michela, non l’ho semplicemente letta sui libri, sui giornali che spesso riportavano le sue opinioni senza contesto con intento da autentici bulli. Non lo dico a caso. Lo dico con cognizione di causa. In questi anni in cui abbiamo potuto leggere le opinioni di Michela Murgia in pubblico non c’è mai stato un momento in cui i suoi interventi si limitassero a uno slogan di poche frasi. Michela aveva una precisione chirurgica per le parole, non le usava a caso, basterebbe leggere uno dei suoi post ancora visibili su facebook, nella sua pagina, per capirlo. Certo, si può sempre non essere d’accordo con le sue opinioni, ma non si può dire che non le abbia sviscerate in modo comprensibile.

E io a volte non ero d’accordo con quello che diceva in pubblico. Il mio privilegio era poterglielo dire in privato. Via messenger.

Ho una chat che inizia nel 2009, quando Michela creò un profilo facebook per avere un accesso alla sua pagina, con cui ci scrivevamo dei botta e risposta. Non ricordavo nemmeno io di quante cose abbiamo parlato in privato. Ricordo meglio le mail che ci siamo scritte prima, nel periodo in cui Virzì stava girando o forse aveva appena finito di girare Tutta la vita davanti, tratto da Il mondo deve sapere.

Io ho conosciuto Michela perché aveva scritto un libro che mi riguardava, un libro sul mondo dei call center da cui ancora oggi cerco di scappare in qualche modo ma dove ogni tanto mi ritrovo ancora a lavorare. Conoscevo e conosco bene quel mondo e conoscevo e cercavo di fuggire dal tipo di call center che ha raccontato lei. Io per esempio non ho mai dovuto lavorare in un call center che procura appuntamenti per i venditori Kirby, proprio perché sapevo come funziona quel tipo di lavoro.

All’epoca eravamo due persone ancora precarie, che incidentalmente sapevano scrivere. Lei molto meglio di me, e non mi riferisco semplicemente alla questione formale. Michela aveva dei contenuti straordinari.

Oltre alla conoscenza del mondo precario, data dall’aver fatto qualsiasi tipo di lavoro prima di diventare scrittrice, aveva una conoscenza profonda della fede e della teologia. Credo sia stata l’unica persona, tra quelle che ho conosciuto nel mondo della cultura e dell’editoria, a capire i miei dubbi sul cattolicesimo. Durante una delle discussioni in chat mi ha spiegato qualcosa sulle lettere di San Paolo e la differenza tra il linguaggio usato con i romani e i tessalonicesi, che all’epoca non avevo afferrato, mi ci sono voluti i 48 anni per arrivarci.

Mi pare perfettamente inutile nominare l’apporto dato alle lotte femministe degli ultimi anni, è sotto gli occhi di tutti. In questo caso io ero una tabula rasa, essendo cresciuta con la seria intenzione di non essere femminista per molto tempo.

E anche qui.

Senza sapere che potevo contare su una Michela Murgia, una persona con cui potevo non concordare ma che non si sarebbe mai sognata di sbattermi la porta in faccia solo per questa ragione, forse avrei continuato a vedere il femminismo come quella cosa strana che mi avevano presentato un giorno alla Libreria delle Donne in via Dogana a Milano, eoni fa: davanti alla mia domanda, sicuramente molto ingenua, “perché una libreria solo delle donne?” mi risposero “se lo chiedi è perché non sei ancora pronta”. Ecco, era stata una frase così respingente, così poco disposta a spiegarmi cosa mi mancava per essere pronta, che per un sacco di tempo non ho voluto sentire parlare di femminismo.

Michela ha contribuito a costruire il mio bisogno di essere femminista senza mai pronunciare esplicitamente la parola femminismo in nessuna delle nostre discussioni private. Mi bastava la sua presenza e la modalità con cui venivano recepite le sue opinioni.

Capivo perfettamente da sola che le critiche feroci che arrivavano non tanto alle sue idee quanto alla sua persona non sarebbero mai state rivolte a un maschio. Critiche per un corpo non conforme, per il non essere mai accondiscendente, per i suoi modi. Critiche che arrivavano da uomini e donne, in questo Michela era trasversale.

Michela per me è stata una mentore senza nemmeno sapere di esserlo. Non l’ho capito nemmeno io fino a poco tempo fa.

Ci siamo viste poche volte, mentre vivevo a Roma. Un giorno mi ha portata a mangiare quello che per lei era il miglior panettone sulla faccia della Terra. Era cascata male perché ho cominciato ad apprezzare il panettone molto tardi. Di quel pomeriggio ricordo molto bene una passeggiata lunghissima al Rione Monti, mentre lei mi raccontava il lavoro a Quante Storie.

L’ultima volta che ci siamo viste è stato per caso, al Festival della Letteratura di Mantova, ed è stato l’incontro migliore. Mi ha riconosciuta lei, perché come sanno i miei 23 lettori che mi conoscono da una vita quando cammino per strada sono concentrata sempre su qualcosa, non vedo la gente che mi passa davanti, tendo a cercare di schivarla.

Quel giorno mi ha vista, l’ho riconosciuta (perché c’è anche il rischio che io non riconosca le persone, quando le incontro per strada, non è cattiveria, è che sono sempre e comunque per i fatti miei quando mi incontrate per caso), e lei si è avvicinata e mi ha abbracciata come se fossimo state amiche da sempre, in un modo con cui io non ho mai abbracciato nessuno. Si capiva che era contenta di vedermi, cosa di cui non mi sono mai data una spiegazione, ma che resta uno dei miei ricordi più belli in assoluto. Non solo di Michela Murgia, ma di qualsiasi persona con cui abbia mai condiviso anche solo un po’ di opinioni in chat.

Ed è quello che racconto, e che racconterò sempre di Michela, tutte le volte che mi capita e mi capiterà di parlarne a quattr’occhi. Era quella capace di venirti ad abbracciare come se fossi una persona che le mancava moltissimo, anche dopo anni, così, senza preavviso.

(ho parlato di Michela Murgia parlando di me, lo so perfettamente. Ma questo è il mio ricordo di una persona cara che è mancata, e noi esseri umani facciamo questo, dopo le esequie: parliamo dei nostri morti, perché abbiamo delle memorie con loro che li rendono ancora presenti. Per tutto il resto ci saranno anni di tempo. Adesso per me è il momento del lutto)

Pillole di facebook o del favoloso mondo della precarietà

Mi sto immergendo nel favoloso mondo della ricerca di lavoro per assistenza clienti (per il momento è studio delle proposte delle aziende).


Sono tre anni che sono lontana da quel mondo e non sembra che la considerazione per chi si occupa di assistenza clienti inbound sia migliorata, con gli anni.
Al contrario.


Se prima erano eccezioni i contratti diversi da quello delle Telecomunicazioni, ora c’è un proliferare di CCNL Servizi ausiliari, Multiservizi (come quello che è stato proposto a me un paio di settimane fa) e via discorrendo, ai livelli più bassi.


Ma una ricerca seria su quello che si permettono di offrire le aziende, protette da leggi di merda che consentono di usare contratti che non corrispondono affatto alla mansione che si ricopre, per di più con compensi più bassi di almeno 200 euro al mese per il full time, qualcuno vuole farla o lo sfruttamento è solo quello di chi lavora a 300 euro in nero, mentre lo sfruttamento che rientra perfettamente nei parametri di legge perché è consentito non lo vogliamo guardare in faccia?


E ne avrei anche per chi offre part time 20 ore con possibilità di estensione. Su turni. Perché è un modo bieco per tenere legati i lavoratori a una sola azienda, creando l’impossibilità di trovare un altro lavoro part time che copra le ore mancanti.

Il tutto però assumendo i lavoratori non per il full time ma per il part time, poi si vedrà se ci sono esigenze di estensioni orarie. (ve lo dico subito: ci sono sempre.

E viene sempre visto di buon occhio chi accetta gli straordinari senza fiatare, perché i bravi schiavetti creati dall’azienda stessa sono i migliori. Sono quelli che hanno davvero bisogno e non si ribelleranno mai. Ah, sono sempre somministrati. Perché, ehi, mica vorrai che i somministrati si iscrivano a un sindacato. Li lasciamo a casa subito. Che problema c’è? Non gli rinnoviamo il contratto dopo un mese, tanto chi può dirci qualcosa?)

Una storia semplice

Questa storia comincia un sacco e una sporta di tempo fa, prima che io nascessi.

Questa storia riguarda mia madre e riguarda me.

La storia comincia quando mia madre era giovane, molto prima di incontrare mio padre e di sposarsi.

Non ho mai capito come si fossero conosciute, mia madre e Ambra, perché mia madre non raccontava molto, o almeno ci provava ma l’affabulazione non è mai stata un tratto peculiare dei Greppi.

Quello che so di mamma lo so da papà e dal racconto della sua amica Ambra.

Ambra la conoscevo da bambina, Ambra dalle poche frasi intelligibili di mamma era la sua amica che aveva sposato un ingegnere e che aveva mandato i figli allo Zaccaria. Lo Zaccaria per i non milanesi è uno dei licei più blasonati e più tosti di Milano ed è frequentato da gente di un certo tipo. Il tipo che io non sono e che non potrei diventare perché quel tipo di persona ci nasci per famiglia e per cultura.

È una scuola per gente della Milano bene.

Allora io dai racconti di mamma pensavo ‘va che cosa figa, quindi Ambra ha fatto la scalata sociale, allora si può’.

Dalla figlia di Ambra io ho ereditato una serie di vestiti di buona qualità che essendo figlia degli anni 70 mi mettevo tranquillamente, eravamo bambini abituati al riuso da molto prima che diventasse una roba da radical chic. Eravamo figli e nipoti di generazioni che avevano ancora una memoria vivida della miseria della guerra e se ti passavano un cappotto nuovo e di sartoria che una bambina non metteva più te lo mettevi anche se tuo padre con il suo lavoro prendeva pure la quindicesima. Perché quello era il mondo.

Da bambina ho visto Ambra e sua figlia Federica, nella loro casa in zona Porta Romana, e non lo sapevo all’epoca ma vivevano in una delle zone ricche di Milano. L’ho scoperto dopo anni.

Il figlio Carlo, più grande, era una figura mitologica di cui si parlava tanto ma chi lo aveva mai visto?

Federica invece era reale.

Ed è stata anche una persona importante per la mia scrittura, anche se non lo ha mai saputo.

Ma andiamo con ordine.

Quando mamma è morta ho dovuto fare quella cosa sgradevole che fanno i figli: recuperare tutti i contatti delle persone che l’hanno conosciuta e chiamarli.

Ambra era la prima che mi è venuta in mente ma di Ambra non avevo un numero di telefono perché ormai usava solo un cellulare e mamma non lo aveva mai scritto da nessuna parte. Quando si parlavano era Ambra che la chiamava.

Così ho cercato il nome di Federica su facebook, una delle poche volte in cui facebook è stato utile. L’ho trovata facilmente, il suo cognome è inusuale e soprattutto c’era lo Zaccaria come riferimento. Non era possibile che ci fossero più Federica con quel cognome che avevano frequentato lo Zaccaria.

Le ho scritto e le ho raccontato tutto quello che era successo, lasciando il recapito.

C’è voluta qualche settimana perché Federica leggesse il messaggio, perché Facebook non mostra le richieste di messaggio di chi non è tra i tuoi contatti, le nasconde.

Un sabato sera mi arriva una telefonata da un numero sconosciuto. È Ambra e io capisco che il messaggio è stato ricevuto.

E lì succede una cosa che non sapevo potesse succedere ma me lo sarei dovuto aspettare.

Ho pianto poco, per la morte di mia madre, me ne sono resa conto e me ne rendo conto da sola. Sono frastornata, faccio un sacco di cose e mi sono specializzata nella fuga. Tutto quello che posso fare per non pensarci lo faccio.

Lì non potevo scappare da nessuna parte perché avevo innescato io la chiamata che in quel momento non volevo sentire.

E ho cominciato a piangere. Non sapevo nemmeno se ero in grado di gestire il dolore di una persona che era lì con mia madre prima che io nascessi.

Alla fine l’ho fatto e dopo i racconti di quando erano giovani e il rimpianto di non essere potuta venire al funerale, abbiamo cominciato a parlare di noi figli che siamo grandi.

E ci siamo sentite via whatsapp, lei sa come usarlo grazie a Dio, per cercare di organizzarci e vederci.

Non sono fuggita, stavolta. Ci sono andata. E ci sono andata per scoprire che tutto quello che avevo sempre pensato non era reale. Ambra mi ha raccontato una storia completamente diversa, di due persone che erano di due classi sociali diverse ma si sono incontrate e volute bene.

Perlomeno da parte di Ambra è stato così, perché mamma era difficile da comprendere.

Dovevo stare poco, avevo un impegno. Sono stata due ore e tre quarti a farmi raccontare persone che avevano popolato la mia infanzia dal punto di vista di mia madre e la loro evoluzione.

Ho trovato una famiglia finalmente funzionale, di persone che sono insieme sapendo perfettamente perché hanno messo su famiglia.

E in tutto questo racconto di cose passate, presenti e dove si vedeva un futuro, una delle cose più difficili da immaginare di questi tempi, è arrivato lo spin off.

Una cosa che era di Federica, solo di Federica, e in un certo senso anche solo mia, perché nessuno fino a quel giorno ne aveva mai saputo nulla.

È successo che all’università ho trovato su una rivista di noi universitari un racconto scritto da Federica, un racconto a sorpresa, perfetto per lunghezza e per numero di parole, un racconto che giustamente ha vinto un premio.

Ho ritagliato quel racconto e l’ho tenuto nel portafogli per anni. Anche a Roma lo avevo nel portafogli.

Quel racconto ha superato cambi borse, cambi portafogli, inondazioni di acqua dovute alla pioggia o a bottigliette chiuse male, era un foglietto dai bordi consunti ma ogni tanto lo rileggevo e avevo la stessa sensazione iniziale.

Un giorno sulla metro B mi hanno rubato il portafogli.

Quel racconto è l’unica cosa che avrei voluto riavere indietro e che non era recuperabile.

Quel giorno ho parlato per la prima volta del racconto che mi ha tenuto compagnia per anni e che non avevo più all’unica persona che poteva forse aiutarmi a recuperarlo. Presente quando Harry Potter ripara la sua bacchetta con la bacchetta di sambuco perché se non riesce quella allora non c’è più niente da fare? Ecco, così.

Il giorno dopo Federica mi ha mandato una foto del racconto tramite facebook.

Ed è stato un giorno bellissimo.

Come è stato un bel giorno quello in cui sono andata a parlare con Ambra perché dovevo recuperare un po’ di mia madre da chi la conosceva prima che nascessi.

Il racconto.

La Festa del Non Lavoro

Quando vivevo a Roma, sembrano millenni fa e invece sono 8 anni, festeggiavo il 1 maggio.

Non l’ho mai festeggiato prima a Milano, non lo festeggio ora.

Dice, per forza, a Roma c’è il concertone della Triade.

No. Non andavo al concertone. Mi interessava così poco il concertone che l’unica mia presenza a Piazza San Giovanni in occasione del concertone è stata il 30 aprile 2005, in compagnia di pochi compagni del Corso Rai, che ancora oggi ricordo bene perché nel bene o nel male abbiamo passato un periodo intenso, troppo breve ma divertente, con svariati pensieri da aspiranti sceneggiatori che in qualche caso ce l’hanno fatta e in qualche altro hanno appeso le scarpe (la sceneggiatura) a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro a un bar. Chi indovina la citazione vince una sceneggiatura mai terminata.

Quindi non era la Festa dei Lavoratori che festeggiavo a Roma.

Era quella del Non Lavoro. Al Forte Prenestino.

E non ho cominciato subito. Ho cominciato nel 2007, quando stavo dal Correttore di Blogze, che invece era un aficionado del Forte. Considerate che è proprio al Forte che mi ha dato il primo appuntamento, c’era un concerto dei Radici nel Cemento, mai ascoltati prima, e quando mi ha proposto ‘vuoi venire a un concerto?’ ho risposto ‘sì’, senza manco sapere chi cantasse. Cosa non si fa per uscire con un Correttore di Blogze.

Quindi dal 2007 al 2015, mi pare, siamo andati ogni anno al Forte Prenestino a festeggiare il Non Lavoro.

Che se ci pensate bene è più trasversale. Tocca tutti. Tocca chi lavora e si riposa il 1 maggio. Tocca chi non ha un lavoro fisso e il 1 maggio è disoccupato. Tocca i liberi professionisti, perché pure loro potrebbero non lavorare, ogni tanto. Tocca chi è inoccupato di lunga durata. Tocca chi è occupato ma non risulta tra gli occupati perché gli unici contratti che gli offrono sono in nero

Tocca, soprattutto, la questione del tempo in cui non si sta lavorando. Il non lavoro è il momento in cui il tempo è nostro e lo possiamo gestire come ci pare.

Allora io di tempo da gestire come mi pareva perché mio malgrado non stavo lavorando ne ho avuto molto.

Non l’ho usato per riposare, perché sta diventando evidente che non posso riposare, non riesco, se mi rilasso collasso.

Avrei dovuto, ma niente.

Però ho fatto cose che non sono lavoro eppure sono le cose che mi definiscono meglio. Nel non lavoro ho camminato spesso in città, fotografando cose, belle, brutte, interessanti, poco interessanti, umane, inumane.

Ho visto mostre. Ho visto film, sempre meno. Sono entrata in chiese. Ho letto didascalie. Ho letto libri. Ho scritto. Mi sono seduta sulle panchine dei parchi per riposarmi qualche minuto.

Ho fatto volontariato. Ho studiato. Cose belle e cose meno belle ma funzionali. Ho girato per negozi che vendevano stronzate.

Sono stata al Forte Prenestino in mezzo a gente che mi somigliava tanto, poco o per niente, ho mangiato cibo a prezzi popolari, mi sono seduta nell’erba e ho imparato a mangiare le fave col pecorino, che a Milano quando mai succede e invece a Roma sono una cosa tipica del 1 maggio.

Con gli anni e con la merda del mercato del lavoro e soprattutto la scarsa considerazione dei lavoratori in quanto esseri umani (siamo schiavi a tutti gli effetti, non siamo persone, quando siamo sul lavoro. A volte di più, a volte di meno, persino quando non abbiamo nessuno sopra di noi siamo schiavi del nostro bisogno di lavorare) mi sono convinta che il primo maggio non debba essere la festa dei lavoratori, perché nell’essere lavoratori non c’è niente da festeggiare.

Non se il lavoro corrisponde all’idea malsana che stiamo diffondendo da secoli.

Sarebbe meglio celebrare il Non Lavoro, perché è il nostro tempo, quello che scegliamo noi senza nessuno che ci impone come trascorrerlo.

Quindi Buon Primo Maggio, buona Festa del Non Lavoro.

Pillole di facebook*

*o di quando Ignazio Benito La Russa Presidente del Senato dice cazzate e mi tocca rispondere dal basso della mia poca conoscenza. Che è sicuramente più alta della sua ma non è una grande consolazione

Dal mio profilo facebook, oggi.

Volevo dire una cosa su quello che ha detto La Russa.

Mio padre ha 90 anni, ha dei ricordi un po’ falsati di quanto successe in via Rasella.

È romano e viveva a Roma, aveva 11 anni e mezzo e ascoltava i racconti dei grandi intorno e quasi tutti, se non erano antifascisti, raccontavano un’unica storia, quella della propaganda.

Inclusa la cazzata smentita che i morti delle Fosse Ardeatine si sarebbero salvati se Bentivegna e compagnia si fossero consegnati.

Falso. L’ordine era già stato eseguito. Prego leggere il libro di Alessandro Portelli, pubblicato ora da Feltrinelli.

Anche mio padre sa, come tutta una certa parte sa da anni, che quello era un gruppo di orchestrali.

Ma sa anche che erano orchestrali con una divisa. Ed era la divisa dell’esercito occupante.

Sa pure che nelle guerre civili succede che gli occupati fanno azioni di guerriglia. Magari tra quei soldati che erano comunque orchestrali ma di un esercito occupante c’era gente a cui il nazismo piaceva poco, magari c’erano brave persone. Non importa. Se i nazisti ti occupano e tu li combatti non stai a chiedere la patente di brava persona.
Questo succede nelle guerre, pure in quelle civili.

Mio padre lo sa benissimo. Pure se su questa cosa tocca sempre discutere perché comunque la sua formazione è stata negli anni del fascismo fino al 1945, e dopo non è stata piallata completamente da un’educazione antifascista (e meno male perché una delle cose importanti della democrazia è lasciare la libertà di pensiero, anche di quello sbagliato, sennò che cazzo di libertà di pensiero è?).

Ma mio padre una cazzata come quella di La Russa non la direbbe in pubblico.
Soprattutto: rispetto a La Russa farebbe meno danni. Anzi.

Il problema è che non c’è mio padre che non ha mai avuto busti di Mussolini in casa alla presidenza del senato, ma un fascista dichiarato e orgoglioso.
E questa non è una colpa da ascrivere a La Russa, che è ciò che è.

Questa è colpa nostra che non abbiamo menato i fascisti ma ci abbiamo dialogato troppo negli anni addietro.

A non voler guardare in faccia il fascismo, studiandolo, criticandolo, mantenendo la memoria di ciò che è stato per evitare che si ripresentasse con la stessa faccia, ma mettendolo sotto il tappeto poi ci si ritrova esattamente Fratelli d’Italia al governo e La Russa presidente del senato.

Ce li siamo cercati scientemente.

(Non significa che ce li dobbiamo tenere per sempre, ma è sempre meglio sapere che niente succede per caso)

Se la volete, questa è la cazzata di La Russa